Racconti fantastici (Nodier)/Il genio buonuomo

Il genio buonuomo

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Charles Nodier - Racconti Fantastici (1890)
Traduzione di anonimo (1890)
Il genio buonuomo
Smarra o il demonio della notte - Epilogo
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IL GENIO BUONUOMO


V’erano un tempo dei genii. Ve ne sarebbero ancora se voi voleste credere a tutti quelli che si piccano di esserlo; ma non bisogna fidarsi. Quello di cui qui si parlerà non apparteneva perà alla prima sfera del genii. Era un genio di soffitta un povero figliuolo di genio che non sedeva nell’assemblea dei genii che per diritto di nascita e salvo l’aggradimento dei genii titolati. Quando vi si presentò per la prima volta, mi vien sempre voglia di ridere pensandovi, egli aveva assunto per divisa del suo piccolo stendardo per la cerimonia: Fa ciò che devi, avvenga che può. Sicchè lo si chiamò il genio Buonuomo. Quest’ultimo sopranome è rimasto di poi agli spiriti semplici ed ingenui che fanno il bene per sentimento o per abitudine e che non han trovato il segreto di fare una scienza colla virtù. Quanto al sopranome di genio se n’è fatto tutto quello che s’è voluto e questo non vi riguarda.

A duecento leghe e più di qui viveva in un vecchio castello signorile una ricca usufruttuaria di cui questi signori della scuola diplomatica mai non hanno potuto trovarne il nome. La buona signora aveva perduto la sua nuora ancor giovane e suo figlio alla guerra, e ad alleviarle le noie della vecchiezza non restavanle che un pronipote ed una pronipote che sembravano creati pel piacere di vederli; poichè la stessa pittura che aspira sempre a far meglio di Dio, non ha fatto mai nulla di piò grazioso. Il maschio in sui dodici anni si chiamava Zaffiro e la figlia in sui dieci chiamavasi Ametista. Si crede, ma non oserei affermarlo che questi nomi loro fossero stati dati pel colore dei loro occhi; il che mi pone in grado d’insegnarvi o di ricordarvi di passaggio due cose: la prima è che lo zaffiro è una bella pietra di un azzurro trasparente, e che l’ametista è un’altra pietra che trà al violetto. La seconda è che ai fanciulli di famiglie patrizie non era dato un nome che cinque o sei [p. 90 modifica]mesi dopo la nascita. Si cercherebbe a lungo prima di trovare una donna buona come la nonna di Ametista e di Zaffiro, buona anzi fin troppo, ed è questo un inconveniente nel quale le donne cadono volontieri quando si son pigliate il disturbo di essere buone; ma questo caso non è tanto comune da procurarsi delle inquietudini. Noi la designeremo perciò col sopranome di Troppobuona, per evitare all’occorrenza la confusione.

Troppo-buona amava svisceratamente i suoi figliuoletti che ella educava come se non li avesse amati mai. Lasciava loro soddisfare ogni capriccio, nè parlava loro di studi, e giuocava con essi per aguzzare e rinnovare il piacere quand’erano stanchi di baloccarsi. Ne avveniva che essi sapevano ben poco o nulla e che se non fossero stati curiosi, come lo sono tutti i fanciulli, non avrebbero saputo niente del tutto.

Tuttavia Troppo-buona era da vecchia data l’amica del genio Buonuomo, ch’ella aveva conosciuto in gioventù; non so dove, molto probabilmente non alla corte, e con lui si accusava spesso nei loro colloquii segreti di non aver avuto la forza di provvedere all’istruzione di queste due carissime creaturine, alle quali ella poteva mancare da un momento all’altro. E il genio aveale data parola di pensare a ciò quando i suoi affari glielo avrebbero permesso; ma egli s’occupava allora a rimediare a’ tristi effetti dell’educazione dei pedanti e de’ ciarlatani, che cominciavano a essere alla moda, e aveva molto da fare.

Pure una sera d’estate Troppobuona, secondo il suo costume, s’era coricata di buon’ora: il sonno degli onesti è così dolce! Ametista e Zaffiro s’intrattenevano nel salone con qualcuno di quei nonnulla che empiscono la fatua oziosità dei palazzi; e avrebbero più d’una volta sbadigliato nel guardarli, se la natura non avesse avuto cura ai distrarli con uno dei fenomeni più spaventevoli, sebbene tra i più comuni. L’uragano imperversava al di fuori. Di tratto in tratto i lampi infiammavano l’immenso spazio dove si incrociavano in zig-zag di fuoco sulle invetriate traballanti. Gli alberi del viale crollavano o si fendevano con fracasso; il fulmine rimbombava nelle nuvole come un carro di rame; nulla v’era, nemmeno la campana della chiesetta che non tremasse di terrore e non mischiasse i suoi lamenti, lunghi e sonori al fracasso degli elementi. Era sublime e terribile!

A un tratto i domestici vennero ad annunciare d’aver raccolto alla porta un vecchietto macero per la pioggia, quasi molto di freddo e probabilmente anche di fame, perchè la tempesta doveva averlo molto sviato dal suo cammino.

Ametista, che s’era stretta nel suo spavento al seno del [p. 91 modifica]fratello, fu la prima a correre incontro allo straniero, ma Zaffiro, che era il più forte e il più lesto, avrebbela facilmente sorpassata se non avesse voluto darle il piacere d’arrivare prima di lui, perchè questi amabili fanciulli erano buoni quanto erano belli. Io vi lascio pensare se le membra indolenzite del povero uomo furono ristorate da un fuoco schioppettante e chiaro, se lo zucchero fu mescolato nel vino generoso che Ametista faceva scaldare per lui sur un straterello di bragia ardente, s’egli ebbe infine buona cena, buon letto e sovra tutto buona accoglienza. Non vi dirò anche chi era questo vecchio perchè voglio procurarvi il piacere della sorpresa.

Quando il vecchio si fu un poco rimesso dalla fatica o dalla farne, diventò allegro e ciarliero, con gran piacere de’ fanciulli. A quel tempo i giovinetti non isdegnavano la conversazione de’ vecchi, da cui pensavano con ragione poter cavar profitto. Oggi la vecchiaia è molto meno rispettata ed io non me no stupisco; la giovinezza ha tanto poche cose da imparare!

— Voi mi avete così ben trattato, disse loro, che il mio cuore si rallegra all’idea di sapervi felici; poichè io suppongo che in questa magnifica dimora in cui v’è soddisfatto ogni desiderio, dobbiate passare de’ bellissimi giorni.

Zaffiro abbassò gli occhi.

— Felici senza dubbio! rispose Ametista. La nonna è tanto buona e noi l’amiamo tanto! Non ci manca nulla è vero; ma ci annoiamo sovente.

— V’annoiate! esclamò il vecchio Col più vivo stupore. Chi mai udì dire che ci si annoiasse alla vostra età; colla ricchezza e l’ingegno? La noia è la malattia delle persone inutili, dei poltroni e degli sciocchi. Chiunque s’annoia, è un essere dì peso alla società e a se stesso e che non merita che disprezzo. Non basta essere forniti dalla Provvidenza d’un eccellente carattere come il vostro, se non lo si coltiva col lavoro. Ma dunque, voi non lavorate?

— Lavorare? uscì a dire Zaffiro un po’ piccato. Noi siamo ricchi e questo palazzo lo mostra abbastanza.

— Badate, riprese il vecchio, lasciando sfuggire suo malgrado un amaro sorriso.

«La folgore che si tace appena avrebbe passando potuto consumarlo.

— Mia nonna ha danaro più che bastante al decoro della sua casa.

— I ladri potrebbero involarlo.

— Se venite dal luogo di cui ci avete detto, continuò Zaffiro con un tono franco, avete dovuto attraversare una pianura della superficie di dieci leghe tutta coperta di orti e di messi. La montagna che la domina a occidente [p. 92 modifica]è coronata da un vasto palazzo che fu quello de’ miei antichi, ed ove essi con grandi speso avevano ammassate le magnificenze di dieci generazioni.

— Ahimè! rispose l’incognito, perchè mi forzate a pagare una così dolce ospitalità con una brutta notizia? Il tempo, che nulla risparmia, non ha risparmiata la più solida delle vostre speranze. Ho costeggiato a lungo la pianura di cui parlate. Essa è un lago: ho voluto visitare il palazzo de’ vostri avi, e non ne ho trovato che le rovine, che oggi servono tutt’al più d’asilo a qualche uccello notturno e a qualche bestia da preda. Le lontre si disputano la metà della vostra eredità e l’altra appartiene ai barbagianni. È così poca cosa, amici miei, l’opulenza dell’uomo.

I fanciulli si guardarono in viso.

— Non v’ha che un bene, proseguì il vecchio, fingendo di non aver visto il loro stupore, un bene che mette la vita al coperto da queste dure vicissitudini; e questo bene non lo si procura che collo studio e col lavoro. Oh! invano contro di esso le acque straripano, la terra si solleva e il cielo consuma i suoi flagelli. Per chi lo possiede non v’ha rovescio che possa abbattergli il coraggio se gli resta una facoltà nell’anima o un mestiere in mano.

L’amabile scienza delle arti è la più bella dote dei fidanzati; le attitudini alle faccende domestiche è la corona delle donne. L’uomo che possiedo un’industria utile o delle nozioni intorno ai bisogni comuni, è per verità più ricco dei ricchi, o più tosto di ricco e di indipendente non v’ha che lui sulla terra. Qualunque altra fortuna è ingannevole e passeggiera; val meno e dura poco.

Ametista e Zaffiro non avevano mai udito un tale linguaggio. Essi si guardarono ancora e non risposero.

Mentre tacevano, il vecchio si trasfigurò. I suoi tratti decrepiti ripigliavano le grazie della bell’età, e le sue membra affrante, l’attitudine sana e robusta della forza giovanile. Questo povero uomo era il genio benefico, del quale vi ho già fatto fare la conoscenza.

I nostri giovinetti non ne avevano guari dubitato di ciò, e voi nemmeno.

— Io non vi lascierò, aggiunse egli sorridendo, senza darvi un debole pegno della mia riconoscenza per le cure di cui m’avete colmo. E poichè la noia sola intorbidò finora la felicità che la natura vi dispensava in modo sì liberale, ricevete da me questi due anelli, che sono potenti talismani.

Premendo la molla che ne apre il cassone, troverete sempre nell’insegnamento che v’è nascosto un rimedio infallibile contro questa triste malattia del cuore e dello [p. 93 modifica]spirito. Se tuttavia la divina arte che li ha fabbricati, distruggesse le mie speranze, noi ci rivedremo da qui a un anno e allora cercheremo altri rimedi. Intanto i regalucci conservano l’amicizia, e io non metto a questo che vi fo che due condizioni facili a soddisfare: la prima è di non consultare l’oracolo dell’anello senza necessità, cioè prima che la noia vi padroneggi, la seconda è di eseguire a puntino ciò che vi prescriverà.

Ciò detto il genio Buonuomo se ne andò, e un autore fornito di immaginazione più poetica vi direbbe probabilmente che egli disparve. È il modo con cui i genii pigliano congedo.

Ametista e Zaffiro non s’annoiarono per quella notte, ma io m’immagino però che dormirono poco. Pensarono forse alla loro fortuna perduta, ai loro anni di attitudine e di intelligenza anch’essi irreparabilmente perduti. Rimpiansero tante ore passate in vane dissipazioni, che avrebbero potuto essere profittevoli e feconde se le avessero sapute bene impiegare. Si alzarono tristamente, si cercarono temendo di incontrarsi e si abbracciarono in fretta, nascondendosi una lagrima. Dopo un po’ d’imbarazzo, la forza dell’abitudine li trascinò ancora una volta, tornarono a’ loro soliti giuochi, ma divertironsi meno dell’ordinario.

— Credo che ti annoi?! disse Ametista.

— Volevo dir lo stesso a te, rispose Zaffiro, ma ho avuto paura che la noia servisse di pretesto alla curiosità.

— Ti giuro, riprese Ametista premendo la molla del castone, che m’annoio a morte!

E nello stesso tempo ella lesse artisticamente incisa sulla placca interna, questa iscrizione che Zaffiro già stava leggendo da parte sua.

LAVORATE

PER RENDERVI UTILI

RENDETEVI UTILI

PBR ESSERE AMATI

SIATE AMATI

PER ESSERE FELICI.

— Non è tutto, osservò gravemente Zaffiro. Ciò che l’oracolo dell’anello ci prescrive, bisogna eseguirlo puntualmente. Tentiamo se ti pare. Il lavoro forse non è noioso più dell’ozio.

— Oh! per questo lo ne lo sfido! replicò la fanciulletta. E poi l’anello ci riserva senza dubbio qualche altro ri[p. 94 modifica]medio contro lo noia. Proviamo, come tu dici. Un giorno cattivo è ben presto passato.

Senz’essere assolutamente cattivo, come lo temeva Ametista, questo giorno non ebbe nulla di delizioso. Si erano fatti venire i maestri, così spesso respinti, e questa gente parla una lingua che pare sgarbata perchè è sconosciuta, ma alla quale si finisce per trovare qualche attrattiva, quando se ne è presa l’abitudine.

Il fratello e la sorella non erano a questo punto. Venti volte, durante ciascuna lezione, il castone s’era dischiuso al movimento della molla, e venti volte l’iscrizione ostinata s’era mostrata allo stesso posto. Non vi era di mutato una parola.

Fu sempre la stessa cosa durante una lunga settimana, fu ancora la stessa cosa durante la settimana seguente. Zaffiro non provava alcuna impazienza.

Si ha ben ragione di dire, mormorava egli, scarabocchiando un penso che, i genii di questi tempi si ripetono! E poi, aggiungeva egli, bisogna convenire, è uno strano mezzo di guarire la gente dalla noia, coll’annoiarli a morte!...

Alla fine del quindicesimo giorno però essi s’annoiarono meno, poichè il loro amor proprio cominciava a interessarsi al progresso de’ loro studi.

Alla fine d’un mese essi non s’annoiarono quasi punto, poichè essi avevano già seminato abbastanza per raccogliere. Si divertivano a leggere in ricreazione, e anche in tempo di lavoro dei libri molto istruttivi, e tuttavia assai divertenti, in italiano, in inglese, in tedesco; non prendevano parte diretta alla conversazione delle persone dotte, ma ne traevano profitto, dopo che i loro studi li avevano messi in grado di comprenderla.

Essi finalmente pensavano, e questa vita dell’anima cui l’ozio distrugge, questa vita novella per essi sembrava loro più dolce dell’altra, perchè avevano molta perspicacia naturale. La loro nonna era d’altronde così felice di vederli studiare senza esservi costretti e godeva così deliziosamente de’ loro trionfi! Io mi ricordo molto bene che il piacere che si procura ai parenti è la più pura gioia dei fanciulli. La molla dei castone scattò tuttavia molte volte durante la prima meta dell’anno; al settimo, all’ottavo, al nono mese, la si esercitava più raramente; al duodecimo era arrugginita.

Fu allora che il genio ritornò al castello, come aveva promesso. I genii di quell’epoca erano puntuali assai nelle loro promesse. Per questa nuova visita, egli aveva spiegato un po’ più di pompa, quella d’un saggio che usa della sua fortuna senza farne pompa con apparati inutili, poichè sa il mezzo di farne un uso migliore. Egli saltò al collo [p. 95 modifica]de’ suoi giovani amici, che non si formavano ancora un’idea ben distinta della fortuna di cui gli erano debitori. Essi l’accolsero con tenerezza prima d’aver riepilogato nel loro spirito ciò ch’egli aveva fatto per essi. La buona riconoscenza è come la beneficenza: non conta.

Ebbene! fanciulli, disse loro gaiamente, voi m’avete molto desiderato, poichè è noia anche la scienza; l’ho spesso sentito dire, e vi sono al mondo de’ sapienti che m’hanno disposto a crederlo. Adesso non più studi, non più scienza, non più lavori severi! Del piacere se ve n’ha, dei trastulli, degli spettacoli, delle feste! Zaffiro voi m’insegnerete il passo più alla moda. Signorina, ho l’onore d’invitarvi per la prima contradanza. Mi sono riservato di farvi sapere come voi siate più ricchi che mai. Quel maledetto lago si è ritirato, e il soggiorno di quegli importuni conquistatori decupla la fertilità delle terre. Si sono anche sgombrate le rovine del palazzo, e si è trovato nelle fondamenta un tesoro che ha un valore dieci volte maggiore del palazzo stesso.

— I ladri potrebbero rubarlo, disse Ametista.

— E il lago riguadagnare il terreno perduto! disse Zaffiro.

Il genio aveva perduto le loro ultime parole, o fece mostra di perderle. Egli era nel salone.

— Questo brav’uomo è ben frivolo per un vecchio, disse Zaffiro.

— E ben bestia per un genio, disse Ametista. Egli forse crede ch’io non abbia a finire il vaso di fiori che dipingo per la festa della nonna. Il mio maestro dice che vorrebbe averlo fatto lui e che mai non si è rivaleggiato di più col famoso Rabel.

— Io sarei confuso, buona sorellina, riprese Zaffiro, d’aver qualche vantaggio su te quel giorno, ma spero che ella proverà tanta gioia quanto se ne può avere senza morire, contando le mie sei corone.

Ma perciò bisognerà lavorare ancora, riprese Ametista poichè i tuoi corsi non sono per anco terminati.

— E anche tu bisognerà che lavori per terminare il tuo vaso di fiori, replicò Zaffiro, poichè non è niente affatto finito.

— Tu lavorerai dunque? disse Ametista con voce carezzevole, come se avesse voluto implorare dell’indulgenza per sè stessa.

— Lo credo bene, disse Zaffiro, non vedo alcuna ragione per non lavorare, finchè non saprò tutto.

— Ne abbiamo ancora per lungo tempo, sciamò sua sorella saltellando di gioia. Così dicendo i giovinetti giunsero presso Troppobuona che era felicissima. Zaffiro si avanzò pel primo perchè più risoluto a fine di [p. 96 modifica] pregar la nonna di permetter loro il lavoro almeno per due o tre anni ancora. Il genio che provava gli scambietti e i ballonchi, aspettando la sua prima lezione di ballo, scoppiò in una sonora risata presso che inestinguibile, alla quale successe non pertanto qualche dolce lagrima.

— Lavorate, amabili fanciulli; disse loro, la vostra buona nonna lo permette e potete riconoscere dalla sua commozione il piacere che ella prova nel contentarvi. Lavorate moderatamente, poichè un lavoro eccessivo fiacca i migliori ingegni, come una coltura troppo esigente esaurisce il suolo più fertile. Divertitevi qualche volta e anche sovente perchè gli esercizi del corpo sono necessari alla vostra età e tutto ciò che solleva il pensiero con un lavoro sospeso a tempo, lo rende più atto a riprenderlo poi senza sforzo. Ritornate al lavoro prima che il piacere vi annoi, i piaceri spinti fino alla noia ci disgustano dai piaceri stessi.

Siate utili infine per riuscire degni d’essere amati e come diceva il talismano, siate amati per essere felici. Se c’è un’altra felicità sulla terra, io non ne conosco il segreto.

Fine