Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so.
Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo
generale, nera anch’essa, ma di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella
ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del
Municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e
altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in
fondo alla piazza. Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise
a chiamare, a gridare, a chiedere chissà? un nome, una notizia di vita o di morte,
qualcosa che l’altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso,
dall’altra estremità della piazza immensa, urlando. E l’altro, di laggiù, vide lei sola,
in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo
con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono
giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola,
senza un grido, e cadde, scomparve nell’ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi,
dolorosamente egoisti.