Quand'ero matto.../4. Scuola di saggezza
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§ 4.
SCUOLA DI SAGGEZZA
Per esercitar bene qualunque professione c’è bisogno, come ognun sa, anche di una certa larghezza di mezzi, la quale renda possibile aspettare le opportunità migliori, senza buttarsi alle prime, come cani all’osso, che è la sorte di chi si trovi in ristrettezze e per l’oggi debba ammiserire il proprio domani e se stesso e la professione sua.
Ora questo vale anche per la professione del ladro.
Un povero ladro, che debba vivere alla giornata, suol finir sempre male. Un ladro invece, che non sia in tali angustie e possa e sappia aspettar tempo e preparare i modi, arriva ad alti e onoratissimi posti, con plauso e soddisfazione di tutti.
Siamo dunque parchi, per carità, nell’accordare il merito della saggezza ai ladri di casa mia.
Tutti quelli che esercitarono sulla mia cospicua ricchezza la loro professione, non meritano l’encomio della gente savia. Potevano rubare con garbo, comodamente, e con prudenza e avvedutezza, e crearsi un’onorevole e rispettabilissima posizione. Invece, proprio senz’alcun bisogno, s’affollarono a rubare, e rubarono male, naturalmente. Riducendomi in pochi anni alla miseria, si tolsero il modo di vivere tranquillamente alle mie spalle. E cominciarono presto, infatti, per loro, tanti grattacapi che prima non avevano; e so, e me ne dispiace, che qualcuno andò anche a finir male.
Marta, mia moglie, è d’accordo con me in questo giudizio; soltanto ella osserva che allorquando un pover’uomo discretamente onesto si trova insieme con tanti ladri ingordi nell’amministrazione dei beni d’un ricco imbecille o matto (che sarei io) la tattica della parsimonia nel furto non è più saggia; il furto discreto, pacifico, giornaliero, non è più segno allora d’avvedutezza, ma di stupidaggine e di povero cuore. E questo sarebbe appunto il caso di Santi Bensai, mio segretario e primo marito della mia cara Marta.
Il povero Santi (a cui devo se ora non son ridotto all’elemosina) conosceva la mia ricchezza e stimava saggiamente ch’essa avrebbe potuto servire con larghezza per me e per quanti, come lui, si fossero contentati di raschiarla discretamente, comodamente, senza cagionar danni troppo evidenti. Forse non tralasciò di consigliare, per comune interesse, moderazione ai suoi colleghi; non fu certo ascoltato; si creò nemici; e sofferse non poco, poverino. Gli altri seguitarono a portar via a balle e a carra; lui, come una sobria formichetta. E quando io alla fine rimasi povero come santo Giobbe, bisognava vedere il buon Santi molto, ma molto più afflitto di me. Egli aveva raggranellato di che vivere modestamente, e non si sapeva dar pace che quegli altri non si fossero degnati neppure di lasciarmi nella sua condizione.
— Carnefici! — esclamava: lui che mi aveva tratto sangue, a mala pena, zitto zitto, con uno spillo.
E più d’una volta, vedendomi un po’ troppo pallido, volle trascinarmi per forza in casa sua a desinare; e lui non mangiava, dalla bile che lo rendeva furibondo contro quegli altri.
Io stavo zitto e ascoltavo Marta che, fin d’allora, cominciò a darmi scuola di saggezza. Ella difendeva contro il marito i miei carnefici.
— Siamo giusti! — diceva. — Con qual diritto possiamo pretendere che gli altri si curino di noi, quando noi continuamente dimostriamo di non aver nessuna cura di noi stessi? La roba del signor Fausto era roba di tutti, e ciascuno se l’è presa. Non è tanto ladro il ladro, quanto, — scusi signor Bandini, — quanto è imbecille chi si lascia rubare. —
E qualche altra volta diceva, come infastidita:
— E zitto, via, Santi! Imita il signor Bandini che almeno se ne sta zitto, perchè sa bene, ora, che non può lagnarsi di nessuno. Se egli infatti, senza che gli spettasse, pensò sempre agli altri, che meraviglia che questi altri abbiano pensato a sè? Ha dato lui l’esempio, e gli altri lo hanno seguito. Per me, il signor Bandini è stato il più gran ladro di se stesso.
— E dunque, in prigione? — le domandavo io, sorridendo.
— In prigione, no. Ma in qualche altro ospizio, sì. —
Santi si ribellava. Il diverbio s’accendeva, e invano io tentavo di metter pace dichiarando che, alla fin fine, quei tali il più gran male non lo avevano fatto a me che sapevo adattarmi a vivere comunque, ma alla povera gente che aveva bisogno del mio ajuto.
— E lei dunque, — ribatteva Marta, – non ha fatto male soltanto a sè, ma anche agli altri. Ne conviene? Non pensando a sè, non ha pensato neanche agli altri. Doppio male! E non ne segue che tutti coloro che pensano soltanto a sè e fanno in modo di non aver mai bisogno d’alcuno, per questo soltanto dimostrano di pensare anche agli altri? Che farà lei adesso? Ha bisogno degli altri, ora. E crede che sarà per tutti un beneficio il dover mostrarsi grati?
— O che ti scappa di bocca, pettegola? — scattava Santi a queste parole, temendo non mi paressero un raffaccio di quel po’ d’ajuto ch’egli con tutto il cuore mi prestava.
Marta, placida e commiserandolo con lo sguardo, gli rispondeva:
— Non dico per te. Che c’entri tu, Santi mio, che sei un pover’uomo da bene? —
E veramente! Se lo avessi lasciato fare secondo il suo affetto e la considerazione sua, mi sarei ridotto a vivere giorno e notte con lui. Non mi voleva lasciare un sol momento, e mi chiedeva per grazia ch’io fossi contento di accettare i suoi servizii doverosi. Povero Santi! Ma, con la povertà, i fumi della follia non m’erano per anche svaporati. Non volevo esser di peso a nessuno de’ miei antichi beneficati, e con garbo compassionevole mi portavo a spasso i miei cenci e la mia miseria e intanto cercavo di procacciarmi un lavoro qual si fosse, anche manuale, che mi desse modo di soddisfare ai miei pochi bisogni.
Ma neppur questo garbava alla mia saggia maestra:
— Lavorare? — mi diceva. — Bell’espediente! Lei non era nato per questo, e ora toglierà, senza volerlo, il posto a un poveretto che forse si sarà incamminato per la via di quell’impiego che Lei va cercando. —
Mi voleva dunque morto, la buona amica? Quel suo ragionamento mi colpì e, non volendo togliere il posto a nessuno, me ne andai lontano, a chieder ricetto a una famiglia di contadini, già miei dipendenti, ai quali di notte, in cambio, guardavo nel bosco la carbonaja, con la scusa che non riuscivo mai a prender sonno. Là, dopo alcuni mesi, mi giunse la notizia che il povero Santi Bensai era morto di un colpo. Lo piansi come un fratello! Dopo circa un anno, la vedova mandò a cercare di me. M’ero ridotto così male, che non volevo assolutamente presentarmi a lei.
Ora Marta non vuol dare a sè il merito di avermi salvato; ma, se è vero che il buon Santi lasciò nel testamento una calda raccomandazione per me alla moglie, è anche vero che ella poteva non tenerne conto.
— No, no, — mi ripete lei — ringrazia Santi, buon’anima, che ebbe almeno l’accortezza di metter da parte questo poco denaro ch’era tuo, per la nostra vecchiaja. Vedi? quello che tu non sapesti fare, lo fece lui per te. Peccato che gli mancasse il coraggio, poverino! —
E così io ora, savio, godo il frutto, scarso, della più savia tra le virtù: la previdenza d’un mio povero ladro riconoscente e da bene.