Primo maggio/Parte terza/V
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Con la sua separazione da quel giovane gli parve che cadesse reciso l’ultimo filo che lo legava ancora alla classe lavoratrice, e pensò con grande amarezza che il suo mutamento, annunziato da lui crudamente ai compagni e interpretato nel peggior senso, avrebbe volto in avversione tutta la simpatia ch’egli s’era già acquistata tra quella gente; poiché egli sapeva bene quanto eran tutti presti a farsi del nome, anche modesto, d’un borghese d’ingegno, che s’avvicinasse a loro, una speranza, una forza, un segno di vittoria, altrettanto eran pronti a giudicarlo un nemico acerrimo quando, per qualunque causa, li abbandonasse. Ed ebbe presto una prova che non s’ingannava. Pochi giorni dopo, incontrò in via Cernaia un drappello d’operai, fra cui riconobbe il viso rosso d’un lavoratore in ferro, amico del Barra, che era stato da lui, e l’aveva intrattenuto a lungo con certe sue idee sulle Corporative: gli parve da lontano che quegli lo accennasse ai suoi compagni; ma, passandogli accanto, l’operaio lo guardò senza toccare il berretto, e, appena passato, egli sentì tutto il drappello arrestarsi, e un bisbiglio di commenti, che immaginò, e che lo trafissero, come lo scherno d’una folla. La settimana appresso, fece un incontro più sgradevole in via Garibaldi, passeggiando col Cambiasi. Questi gli diceva il suo pensiero sulla quistione economica: che si sarebbe stabilita col tempo, fra il capitale e il lavoro, una maggiore armonia, che il frutto del capitale sarebbe scemato e quello del lavoro cresciuto oltre ad ogni previsione presente, ma che il capitale privato non sarebbe mai stato distrutto né il lavoro mai affrancato, che la lotta fra l’uno e l’altro era necessariamente eterna come il movimento della società e della natura; quando s’interruppe ad un tratto dicendo: - To’! Maria Zara! - Era lei, infatti, che veniva incontro a loro, a un passo appena sulla destra. L’apparizione fu così improvvisa, che Alberto non fu in tempo a riflettere che era più prudente il fingere di non vederla, e si levò il cappello. Quella passò senza guardarlo. Egli impallidì. Il Cambiasi capì, sorrise e non fiatò. Ma Alberto ebbe il sangue sconvolto: quell’atto d’aperto disprezzo d’una donna, di quella donna che, al primo vederlo, aveva mostrato di diffidar di lui, come d’un amico leggiero e d’un nemico larvato, e che doveva lodar se stessa d’averlo stimato in tempo per quel che valeva, gli fece l’effetto d’uno schiaffo, sotto il quale la sua fronte si curvò e il suo orgoglio gittò sangue. Tornò a casa con l’anima avvelenata, vi trovò l’ultimo numero della Quistione sociale: stette un momento in forse se dovesse aprirlo, ricordandosi d’una occhiata torva del giovane fratello del Rateri, colta a volo nella scuola quella mattina, e che gli era parsa un cattivo annunzio; ma poi l’aperse, e in fondo a un articolo contro i "Camaleonti borghesi", trovò queste parole in cui sentì fischiare la frusta d’acciaio del direttore: - Procedano dunque più cauti costoro e non scambino con grandi e profondi rivolgimenti della coscienza passeggiere allucinazioni di poeti; dalle quali si risvegliano più egoisti e più gretti di prima per tornarsi a rimpiattare, due volte fedifraghi, sotto le ali della borghesia che son nati a servire. - Il colpo lo pigliò in pieno petto, e fu il suo colpo di grazia.
Allora cadde in una profonda tristezza, di cui sua moglie s’afflisse e si sgomentò. E si riavvicinò a lui, per consolarlo; ma egli la respinse quasi con repugnanza. Essa non ne fu stupita, però: per causa sua aveva smesso il suo lavoro, soffocato i suoi affetti, rinunziato al suo ideale, donde quella tristezza era nata. E ne sentì rimorso e ne pianse; ma senza veder modo di ripararvi. Che cosa dirgli? Che fare? Come fingere con lui delle idee e dei sentimenti che non aveva in cuore e che l’avrebbero risospinto per una via piena di pericoli? Bisognosa di consigli e di sollievo, si aperse prima con la signora Cambiasi, che per cervello era una grande bambina, ma buonissima d’animo. Questa le domandò sventatamente: - E se avesse una passione? - La signora si scosse: non ci aveva mai pensato: il raffreddamento di suo marito con lei le pareva troppo ben giustificato da altre cause. La Cambiasi spiegò il suo pensiero con l’ingenuità consueta: - Dico questo perché, secondo il suo modo di vedere, non dovrebbe essere una cosa tanto fuor delle regole. Tu sai bene che i socialisti vogliono l’amor libero. Loro dicono: la donna è di tutti. Con queste idee è naturale che s’innamorino facilmente e non si facciano scrupolo del matrimonio - E soggiunse, dopo un po’ di riflessione: - In fondo, io credo che sia questo che vogliono sopra tutto. Di fatti, vedi, son tutti giovani. Tutto il rimanente non è che un pretesto, capisci. Son gente che vuol fare all’amore in libertà. Ecco la quistione sociale. - Ma queste parole, che in tutt’altra occasione l’avrebbero fatta ridere, la lasciaron turbata. Confidò il suo affanno, senza accennare il nuovo sospetto, anche alla signora Luzzi, e questa fece un colpo d’audacia. - Non t’offendi, mia cara, - le disse dolcemente - se ti dico una cosa sgradita?... No? Ebbene, cherchez la femme. - Anche lei! Rispose di non crederci; ma la Luzzi s’accorse che era impensierita, che cercava di raccogliere indizi nella sua mente, e di afferrare un filo; e allora andò più in là con la faccia fresca, le disse addirittura che aveva un sospetto, e, fattasi pregare, spiccicò il nome di Maria Zara. - Oh! Quella donna! - esclamò la signora con un atto d’incredulità e d’indignazione - Ma è impossibile! E assurdo! - Non c’è assurdo in amore -, sentenziò l’amica -, e in questo men che mai. L’amore nasce facilmente dalla simpatia delle idee, dalla fede comune in un ideale, dall’entusiasmo per la stessa causa. E poi, conosci di vista Maria Zara? E una figura originale, e non credo che meni la vita che dicono. Tutte le propagandiste politiche sono calunniate. - Ah no, non lo poteva neppur sospettare! Oltre tutto il resto, aveva inteso dire che era una figura volgarissima di "donna-uomo"; il suo Alberto così bello, così nobile, non poteva esser disceso tanto basso; era una pazzia il solo pensarci! E nondimeno anche quel sospetto le restò nel cuore. Ma se pure da una passione nasceva la sua malinconia e la sua freddezza con lei, ne era stata sempre lei la prima causa, allontanandolo da sé, disgustandolo della famiglia, spingendolo a cercar altrove una distrazione e un conforto coi suoi rimproveri, con le sue punzecchiature continue, con la sua contraddizione ostinata e irritante. Era lei che aveva fatto morir di dispetto il suo amore... Oh, in qualunque modo, lo voleva risuscitare e riprendere! Se non poteva acconsentire alle sue idee, voleva lasciarlo libero e tranquillo, agevolargli, non contrastargli il cammino, addolcire, non contristar la sua vita. Lo voleva, e doveva farlo, e doveva dirglielo, giurarglielo, ma in modo ch’egli fosse ben certo che non era quello un ripiego per rabbonirlo e rasserenarlo, ma la sua volontà risoluta, il suo proposito meditato e sincero. Ma in qual modo glie lo doveva dire? Con quali parole cominciare? V’era nella sua natura composta e dignitosa una ritrosia profonda ad ogni atto che potesse parere un’esagerazione di sentimento, che avesse in sé qualcosa d’insolito e di drammatico, da destare un dubbio sulla sua schiettezza. Ogni volta che doveva compiere uno di quegli atti, essa aveva bisogno d’un intermediario... E quale migliore intermediario poteva trovare di sua cognata, fra la quale ed Alberto era sorta da ultimo un’affettuosa intrinsichezza? Al primo cenno che gliene fece, quella capì e diede una esclamazione di gioia e di gratitudine. Si confidavano tutto, penetravano profondamente, con poche parole, l’una nel cuor dell’altra. Giulia espresse i suoi sospetti. - Oh! è impossibile! - rispose la ragazza trionfante - Se amasse una donna, questa non gli potrebbe che corrispondere; e allora, sarebbe triste? - E questa ragione così semplice e recisa la rassicurò, ravvivando il suo ardore. Sì, Ernesta gli avrebbe detto l’animo suo, gli avrebbe preparato il cuore a perdonarle e a riconciliarsi per ricominciare un’altra vita. Essa lo rivoleva, lo amava, l’aveva fatto troppo soffrire, lo voleva riveder contento, riacceso dei suoi entusiasmi, amoroso, operoso, felice.
Fissarono un giorno: Ernesta desinò con lei e con Alberto. Questi, durante il desinare, non fiatò, secondo il solito, e dopo s’andò a sedere in disparte col ragazzo, accarezzandolo, senza parlare. Da un po’ di giorni egli s’era di nuovo stretto a lui, che per qualche mese, distratto, aveva trascurato; ma amato sempre con una profonda tenerezza; e lo teneva per ore vicino a sé, facendolo parlar lungamente delle cose sue, e ascoltando più la sua voce che le sue parole, come una musica che lo sollevasse. E il ragazzo capiva ch’egli aveva un forte dolore, e gli fissava in volto i suoi begli occhi azzurri, con l’espressione attonita che è propria dell’età sua, mostrando più spiccata, nell’immobilità del viso bianco ed intento, la sua grande rassomiglianza con la mamma. Confusamente egli comprendeva che la tristezza di suo padre derivava da quelle tante discussioni che aveva intese tra sua madre e lui, nelle quali l’animo suo era stato sempre fluttuante, avvicinandosi ora all’uno ora all’altro, non secondo le loro ragioni, che intendeva a mezzo soltanto, ma secondo che il viso e la voce dell’uno o dell’altro mostravan più sincerità e più fermezza, o esprimevan maggior rammarico della contraddizione. Quella sera Alberto lo tenne ritto per un pezzo tra le sue ginocchia, stringendogli le mani e fissandolo in silenzio, con una tristezza più grave e più affettuosa dell’usato; poi s’alzò, e senza guardar sua moglie e sua sorella, andò nel suo studio e s’affacciò al terrazzino della piazza.
Tramontava il sole: la piazza vasta, tutta verde d’acacie in fiore, chiusa all’orizzonte dalle Alpi azzurre, spiccate nel cielo d’oro, corsa da carrozze e da carri e brulicante di popolo, era bella ed allegra. Era l’ora in cui frotte d’operai tornano dal lavoro, avviati verso Borgo San Donato, verso via Garibaldi e pei viali, a passo frettoloso ed eguale, come drappelli di soldati. Ogni sera a quell’ora, nei giorni scorsi, egli stava là a vederli passare in quel modo, neri di carbone, bianchi di calce, macchiati d’untume di macchine, con le giacchette buttate sulle spalle; vecchi già ingobbiti, ragazzi rinsecchiti dalle fatiche precoci, giovani a cui la vita rude aveva anticipato l’aspetto dell’età matura; tutti con le braccia penzoloni, silenziosi, cogli occhi fissi dinanzi a sé, sollecitati dalla fame verso le loro soffitte nude, dove si sarebbero buttati a letto col boccone in gola per rialzarsi all’alba e tornare al lavoro. E un tempo addietro, quando pensava di dare un giorno la sua voce alle loro fatiche mal compensate e ai loro diritti compressi, gli era un piacere il vederli. Sentiva con loro una comunione di spirito; gli sarebbe quasi parso naturale che, passando sotto le sue finestre, essi levassero il viso come verso un amico e gli facessero un cenno di saluto con le loro ruvide mani. Quante volte aveva sentito come un impulso a discendere, a raggiungerli, a mescolarsi con essi, a dir loro: - Io sono con voi; il mio ingegno, il mio cuore, l’opera mia sono per l’idea che s’agita confusamente nell’animo vostro, ciò che voi desiderate e sperate è la fede e lo scopo della mia vita; io son poca cosa, ma dietro di me, nella mia classe, c’è una legione; e i nostri figliuoli saranno coi vostri, e più arditi e più ardenti di noi. Ne dubitate? Ma guardatemi negli occhi e mettetemi una mano sul cuore per sentire s’io mento! - E non potendo dirle a loro, diceva queste parole a se stesso, e pensava che un giorno le avrebbe gridate a delle folle, e sentiva a questo pensiero una commozione vigorosa e dolcissima, che gli dilatava il petto e gli faceva alzare la fronte. Ma da un pezzo in qua, e più in quel momento, quella vista lo rattristava, e gli destava un rimorso. Gli pareva che quegli uomini, passando davanti a casa sua, aggrottassero la fronte e dicessero tra i denti, senza guardarlo: - Eccolo là, l’amico d’un giorno. Egli ha sposato la nostra causa, e l’ha disertata; ci ha fatto una promessa, e l’ha tradita. Per far questo, ha trovato delle buone ragioni in certi libri scritti da altri signori! E va via dunque, egoista come gli altri, levati da quella finestra, non ti dar almeno lo spettacolo della nostra stanchezza e dei nostri cenci -. E gli si stringeva il cuore, e sentiva di nuovo l’amara coscienza della sua complicità individuale nella grande ingiustizia di cui i lavoratori erano vittime in una società dove il danaro sovrasta a tutto, comanda a tutti e può tutto. La sentiva, e non aveva la forza di affrancarsene, e l’avrebbe dovuta aggravare sempre più; poiché non c’era via d’uscita al dilemma del maestro rinnegato: - O entrar nelle nostre file e combatter con noi, o transigere continuamente con la propria coscienza, per finire un giorno a dire a se stessi: perisca l’umanità purché io non perda i miei privilegi e la mia pace! - Certo; poiché un periodo di lotta violenta era ineluttabile, egli sarebbe stato forzato a voler la difesa della sua classe fino all’estremo, ad acconsentire a una reazione senza limiti, ad approvare ogni macello di popolo che si sarebbe compiuto in avvenire. Che abbominevole cosa! Che codardia passar fra dei millioni di miseri chiudendo gli occhi per non vedere le piaghe e turandosi gli orecchi per non sentire i gemiti, viver tra la menzogna e della menzogna, sotto la maschera stracciata della filantropia, tremanti per il proprio sacchetto, difendendosi con dei sofismi fin che si può, e quando questi non bastano, con le braccia e coi petti della gente stessa che si sfrutta e si opprime! E con questa idea avrebbe dovuto educare quel bel ragazzo biondo, buono e gentile, che era il suo amore e la sua alterezza, lasciandogli in eredità il disprezzo ch’egli s’era attirato sul capo? A questo pensiero tutto il suo sangue si ribellava come alla proposizione d’un delitto. E allora con tutta l’anima, come un credente che invoca una grazia, egli domandò a se stesso uno slancio improvviso d’affetto e di volontà, un’illuminazione subitanea della mente, che gli ridesse l’antica fede, che gli risuscitasse nel petto quella forza e quel coraggio con cui, da principio, era proceduto vittorioso nell’Idea, rovesciando e calpestando superbamente nella sua vita le ragioni della scienza comprata, le vecchie abitudini del pensiero, le suggestioni dell’interesse, i pregiudizi di classe, tutto quel miserabile ingombro di macerie del passato, che poi gli s’erano rialzate davanti, come il muro d’una roccia sinistra, per chiudergli un’altra volta il cammino e l’orizzonte. Oh, se quella fiamma gli si fosse riaccesa! S’egli avesse potuto, sporgendosi fuori da quel terrazzo, dire un’altra volta a quella gente: - O lavoratori stanchi e tristi, vecchi disfatti, madri torturate, fanciulli mal pasciuti e percossi, povera carne da lavoro, legata alla ruota della società, condannata alla povertà dall’ingiustizia, all’ignoranza dalla povertà, all’impotenza dall’ignoranza, povero mio sangue fraterno, io v’amo di nuovo, son di nuovo con voi, sono vostro fratello, vostro soldato e vostro apostolo per la vita e per la morte, e anche questo, il mio figliuolo, lo do a voi: egli raccoglierà la mia spada quando sarà spezzato il mio braccio, e morirà per la giustizia egli pure, baciando la bandiera di tutte le patrie!
E ciò pensando, piantati i gomiti sulla balaustrata, chinò la fronte fra le mani, con gli occhi bagnati di lacrime, come per aspettare che gli si compisse nell’anima il miracolo invocato.
In quel punto si sentì posare una mano sulla spalla e voltandosi di balzo vide davanti a sé il viso timido e amoroso di sua sorella. Tentò, ma non fu in tempo a nascondere la sua commozione.
- Alberto -, gli disse quella, con voce commossa - tu hai un dolore.
- Sì -, rispose.
E non ci fu bisogno che le dicesse altro. La sua limpida intelligenza di fanciulla meditativa, affinata da una natura affettuosa che non s’era mai potuta espandere, aveva indovinato fino al più intimo dei suoi pensieri.
Incoraggiata dalla mezza oscurità, che velava il suo viso, essa gli rimise la mano sulla spalla e con una voce così dolce e carezzevole che non gli parve più la sua, gli disse: - Tu ti senti un vuoto nell’anima. Tu non credi più... o dubiti.
Alberto fu colpito dalla sicurezza con cui ella gli disse quelle parole.
- Ma è perché - soggiunse la ragazza - ascolti troppo la ragione... e non più abbastanza il tuo cuore.
Egli titubò un momento; poi disse con dolcezza: - La ragione deve prevalere sempre.
- No, Alberto -, rispose la sorella, con voce più bassa, - non in queste cose. Ci sono delle verità a cui la ragione non arriva che con grandi sforzi, ma che il cuore sente, capisce naturalmente. Oh!... son le verità più importanti.
Alberto non rispose.
- La verità non è mutata, dopo quella sera che la vedevi così chiara e la difendevi in faccia a tutti con tante belle ragioni, che non ho più dimenticate. Soltanto... -, soggiunse con timidezza, - è il sentimento che dà il colore alle ragioni, come il sole alle cose; quando il sole si nasconde, tutto si scolora. Ora in te... c’è un’ecclissi.
Alberto restò stupito. Era sua sorella che gli parlava?
- Fa che il sole esca di nuovo, - continuò la ragazza, - e tutte le ragioni che ti parevan buone prima, ti parranno buone un’altra volta. Che serve di studiar tanto?... Tu leggi i libri degli avversari, dai retta alle loro ragioni. E si capisce che n’abbian molte; ne ha potute ammucchiare tante in tanto tempo, per difendersi, la società a cui essi appartengono! Gli avversari sono i più, per adesso, e quelli che hanno più studiato: è naturale che paiano superiori nella disputa. Ma... che importa? Come si può dubitare... caro Alberto? È possibile che il sentimento della pietà e della giustizia c’inganni? Che la verità non sia dalla parte di chi vuole il bene di tutti, e combatte in nome di questo, e contro il suo interesse personale, per un avvenire che non potrà vedere?
Alberto le afferrò le mani e le disse con calore: - Ma dove hai imparato queste cose? Chi t’ha suggerito queste parole?
- Caro Alberto, sono cose che dicono i tuoi libri e che ho inteso da te, e che ora non dici più, non perché tu abbia cessato di crederci, ma perché non le senti più abbastanza vivamente; non per altro. Perché cercar nello studio una certezza che soltanto il cuore può dare? Questo movimento di idee e di tanti millioni d’uomini verso uno stato migliore è una cosa ben più grande di tutta la scienza che lo combatte o che lo giustifica. Tu lo puoi servire diffondendo dei sentimenti di pietà, di giustizia. Facendo questo, non puoi errare. E non hai da far altro per esser contento... Io non so nulla... capisco poco; ma son certa di questo come della mia esistenza.
- Oh mia Ernesta! - esclamò Alberto, cingendole la vita con un braccio e dandole un bacio sulla tempia - ma che angelo sei tu? Perché non mi hai dette mai queste cose?
- Non ho osato -, rispose con la voce tremante - Ma ora... Sentimi, Alberto, e dammi retta. Io ho letto tutto quello che hai già scritto del tuo lavoro, che hai abbandonato; e m’ha fatto piangere, m’ha infiammato il cuore. Riprendilo, rileggilo; ci ritroverai te stesso, ti rimetterai a lavorare, e lavorando ritornerai quello di prima. Giulia non ti darà più dispiaceri, s’è pentita d’averti contrariato; non lo farà mai più, me l’ha promesso, lo prometterà anche a te. Profitta del buon momento, ripiglia quelle pagine subito... Aspetta, te le do io! - E corsa al tavolino, aperto il cassetto, presi i fogli, tornò da lui, li baciò, e glie li mise contro il petto, dicendogli: - Qui hai messo tutto il tuo cuore: eccolo: riprendi il tuo cuore!
E nel dir questo, gli prese le mani e gliele fece premere sul manoscritto, e gli stampò un bacio sulla fronte, che egli le rese tre volte, soffocando nell’ultimo un singhiozzo violento.
La ragazza fuggì, raggiante di gioia, e corsa nell’altra stanza, disse con voce rotta alla cognata: - Lascialo solo per un po’ di tempo; verrà lui da te; io torno dalla mamma; a domani!
Alberto accese il lume con la mano fremente, si mise a tavolino, e, ansando quasi, cominciò a leggere. Gli parve da principio di legger i pensieri d’un altro. Poi, mano a mano, rimettendosi nello stato d’animo, nel quale aveva scritto quelle pagine, rivide tutto quello che allora aveva visto quasi con gli occhi della fronte: le officine, le case, le macchine, i fanciulli, le fatiche mortali, le generazioni avvelenate e sformate sul loro sorgere, le cifre spaventevoli delle malattie e delle morti, scritte a tratti di sangue su muraglie d’ospedali e di cimiteri, da cui innumerevoli piccoli spettri sorgevano, domandando di riviver l’infanzia che non avevan goduta e di conoscer la giovinezza a cui non eran giunti. E di nuovo la pietà, la grande madre di tutti gli affetti, la santa ispiratrice delle sante opere, gli irruppe nell’anima con un’onda di torrente e urtò, coperse, travolse tutti gli ostacoli della ragione. E allora rimosse i fogli e volse la mente alla quistione intera. Chiamò a raccolta tutti gli argomenti, che l’avevano arrestato e ricacciato indietro, e li assalì ad uno ad uno, con una specie di furore intellettuale, a colpi di spada. E come! Questo "moto immenso d’una immensa materia umana agitantesi per organarsi nelle forme più alte della società e della civiltà" si sarebbe arrestato davanti alla confutazione dottrinale della teoria marxiana del valore? Ma che! Non una delle ragioni allegate per dimostrare impossibile l’attuazione dell’idea socialista era più valida d’una qualunque delle mille con cui, a un uomo d’altri secoli, si sarebbe potuto provare impossibile l’esistenza della società presente! Che logica era quella, per dimostrare intollerabili i mali dello stato futuro, di non fare assegnamento alcuno dello spirito di sacrificio e d’acquiescenza delle moltitudini, che sopportano ora con pazienza infinita dei mali tanto più gravi? Come si osava parlare d’"insufficiente stimolo al lavoro" davanti all’esempio d’una società in cui la parte massima del lavoro sociale è compiuta da lavoratori già ridotti, per quel rispetto, in condizioni identiche in tutto, salvo che nei vantaggi, a quelle in cui il socialismo li avrebbe posti? Come si poteva opporre a questo la necessità della concorrenza mentre col crescente e inevitabile accentramento delle industrie, generatore necessario di giganteschi organismi di produzione, d’ogni concorrenza vincitori, noi la vedevamo avviata irresistibilmente alla distruzione di se medesima? E qual forza rimaneva a tanta copia d’argomenti contro la dottrina collettivista quando si vedeva che essa entrava nella società, di giorno in giorno, palese o larvata, in forma di mille concetti, esperimenti, istituzioni e riforme, imposte da un’immensa forza diffusa, e tentava le porte delle legislazioni, in tutti i paesi, con infinite proposte ed istanze, respinte quasi da per tutto, ma da per tutto rinascenti di continuo, con la vitalità ostinata delle cose logiche e necessarie? E in quel punto, raggruppandosi rapidamente nel suo pensiero mille fatti ed indizi che prima v’erano slegati e dispersi, l’unità di tendenza del movimento vastissimo gli apparve con una evidenza maravigliosa. Sì, in ogni parte, nell’incremento della nuova legislazione del lavoro, nella restrizione dei diritti di proprietà e di successione, nelle modificazioni dei sistemi tributari, nel trasformarsi dei servizi privati in servizi pubblici, nel moltiplicarsi dei monopoli governativi e comunali, delle società di assicurazione e di soccorso, e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, nel sorgere o nel prepararsi di nuovi organi dello stato che erano i primi rudimenti delle grandi istituzioni future, regolatrici della produzione, nello svolgimento continuo della forma cooperativa di consumo e di lavoro sostituente a poco a poco al modo individuale il modo collettivo di produzione e di scambio, in quella forza invincibile che tendeva dovunque a mutare i mezzi privati di lavoro in mezzi non più possibili a impiegarsi che socialmente, a sfruttare la natura in grande e con unità di metodi, a far fasci di tutte le forze divise, a condurre la società ad un ordinamento sempre più armonicamente informato alla solidarietà economica e morale di tutti i suoi elementi, sì, in tutto questo moto pulsava la vita della grande Idea vittoriosa. E davanti ad esso crollavano anche le ultime obbiezioni dello Spencer che l’avevan tanto turbato, perché se era quello un moto che dovesse ricacciar indietro la società, dove se n’andava la sua gloriosa teoria dell’evoluzione, salvo ch’ei lo credesse una agitazione artificiale e inconsulta promossa da poche menti aberrate? Ah, questo era un sogno, non già quel fremito profondo che scoteva la società nelle viscere, non già quella visione d’un oriente nuovo, verso il quale tutti i pensatori e tutti i potenti della terra e tutte le caste e tutte le folle, per salutarlo o per maledirlo, esultando o tremando, volgevan la fronte ed il grido! No, quell’Idea non era un sogno, ma un’antiveggenza luminosa; non era una teoria il socialismo, ma una necessità storica; non era un accesso morboso quello che agitava la società, ma il turbamento immenso d’una emozione. E gli ritornavano allora alla mente tante pagine sfolgoranti d’entusiasmo e di dottrina che l’avevan persuaso, tante belle figure di credenti e d’apostoli che aveva amati, e la dolcezza divina delle prime speranze, e tutti i propositi generosi che gli avevan fatto cara e santa la vita, e in questo pensiero si sprofondò con un ardore febbrile, fin che fu soverchiato dalle nuove onde d’idee e d’affetto affluenti da ogni parte nell’anima sua, e balzò in piedi col sangue al capo, ansante di gioia e di sgomento, e vacillò, come percosso in mezzo alla fronte.
A fatica, appoggiandosi con una mano alle pareti, uscì dallo studio, attraversò le stanze silenziose e arrivò alla sua camera, dove spense il lume e si buttò sul letto, per quietare l’agitazione violenta, il senso quasi d’una doppia vita, più forte del suo corpo, che gli faceva vibrare i nervi e fiammeggiare il cervello. E in quella oscurità, rotta dal raggio fioco d’un lampione del cortile, appena si fu un poco rimesso e ricominciò a pensare, sentì un grande bisogno di espandere in parole la sua commozione, di accendere un’altra anima all’anima sua. E pensò: - Perché Giulia non viene? Perché non è qui mia sorella? Perché non viene qui il mio figliuolo?
In quel momento sentì di là dall’uscio una voce sommessa che disse: - Va -, e vide apparir sulla soglia una piccola ombra, che accorse subito al suo capezzale.
Era il suo ragazzo; ed egli lo abbracciò appassionatamente, come se non l’avesse visto da un anno... Poi gli prese le mani fra le sue e gli disse, ancora eccitato dalla febbre, ma lento, e con grande affetto:
- T’ho da domandare una cosa. Ascoltami bene, Giulio. Tu sei nato in una condizione privilegiata. Non sarai ricco; ma avrai tanto da poter vivere agiatamente senza lavorare. E se vorrai lavorare e guadagnarti un posto nel mondo, com’è tuo dovere, ti sarà assai più facile che alla maggior parte degli altri, perché ti troverai come un uomo armato in una lotta in cui quasi tutti gli altri sono inermi. Mi comprendi? Sei sicuro fin d’ora che non avrai da patire la miseria, che non sarai ridotto mai nella necessità di avvilirti per non perdere il pane, che potrai essere facilmente onesto e buono, e che mentre tanti altri giovani, esercitando la tua stessa professione con non minore ingegno e non meno operosità di te, avranno appena di che vivere da sé soli, tu, con quello che guadagnerai aggiunto a quello che possiedi, potrai avere una famiglia, procurarti dei piaceri, far degli studi gradevoli, viaggiare, soddisfare quasi tutti i tuoi desideri e quelli dei tuoi cari. Ebbene, figliuol mio... se ti dicessero: - Giulio, tu vedi quanta gente c’è intorno a te, che suda al lavoro per tutta la vita e non ne cava tanto da vivere umanamente, quanti millioni di ragazzi lasciati nell’ignoranza e nell’abbrutimento, e quante famiglie ridotte alla fame senza loro colpa; vedi quante diseguaglianze ingiuste, quante ire, quanti odi. Ora, c’è modo di far sì che questa grande miseria sparisca tutta o in gran parte, che il lavoro non manchi a nessuno e diventi più umano per tutti, che tutti i ragazzi siano istruiti e educati, che le disuguaglianze ingiuste scompaiano, che gli odi cessino, che la società diventi quasi una immensa famiglia, in cui ciascuno, per interesse proprio, desideri il bene di tutti gli altri; ma per ottener tutto questo, è necessario che tutti i ragazzi come te rinunzino alla loro sorte privilegiata, che cedano alla società quello che posseggono, che rientrino nelle condizioni comuni e acconsentano a faticare e a lottare per vivere modestamente come tutti gli altri, Giulio, acconsentiresti?
Subito e naturalmente, con l’accento di chi accetta una proposta su cui non è possibile un dubbio, il ragazzo rispose: - Ma sì, papà!
- E ne saresti contento?
- Certo, ne sarei contento!
- E non te ne pentiresti?
Il ragazzo rispose con accento vivo e sincero: - È impossibile. Alberto lo tirò a sé, e si strinse il suo capo sul cuore; ma mentre si riabbandonava, affaticato, sul cuscino, si sentì sulla bocca una bocca che non era quella del figliuolo, e una voce dolcissima che gli disse col tremito del pianto: - Oh Alberto, mio buon Alberto! Hai ragione tu. Segui la tua via. Non ti darò più dei dispiaceri. Perdonami.
E l’ultima parola fu soffocata da un bacio ardente in cui ella sentì il perdono e l’amore.