Primo maggio/Parte quinta/XI
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In casa Cambiasi quella sera c’era conversazione, dopo un lauto pranzo, servito in gran disordine: i cinque o sei amici della prima sera, e la coppia Luzzi, che stentavano ad intendersi fra il baccano che figliuoli grandi e piccoli facevano nel salotto disordinato.
S’era parlato del Bianchini, che gli amici avevano tartassato, e poi dal Bianchini al socialismo, da cui aveva preso argomento Cambiasi a parlar degli anarchici e dell’anarchico, il tipo, secondo lui, - una delle figure più interessanti che aveva mai conosciute. Già, egli non aveva antipatia per gli anarchici, che, secondo lui, intralciando e facendo diventar moderati, per reazione, i socialisti, ritardavano la rivoluzione. Ma quel Baldieri era veramente un campione maraviglioso. - Discendente diretto di Gian Giacomo lo chiamava. Egli lo studiava, avendo occasione di vederlo spesso per lavori. E quello gli parlava liberamente - non si sarebbe fidato d’un borghese socialista - del Bianchini, per esempio, ma si fidava di lui, che sapeva avversario degli uni e degli altri, un borghese logico e sincero, un aperto nemico. E lui pure lo capiva. La teoria era chiara. Distruggere il mondo, e lasciare che rinascesse da sé. Alla buon’ora, - ecco una dottrina semplice e chiara. Era indiscutibile che per fare un edifizio nuovo al presente dove ce n’è uno vecchio, bisogna cominciare col mandare il vecchio per aria.
E ritto davanti alla compagnia seduta, col suo fare brillante e gioviale, tenendo d’occhio la signora Luzzi che lo ascoltava con viva attenzione, descriveva la strana vita di quell’uomo, un farneticamento, un’azione perpetua, scompigliatore di tutte le riunioni socialiste, discutitore infaticabile, scrittore di articoli, propagandista indefesso, lavorante di notte, segnato di cicatrici di percosse ricevute in riunioni tumultuose, tenuto d’occhio dalla Questura, già perquisito dieci volte, e altrettante arrestato e rilasciato - e così noto a Torino, che nessun padron di casa gli voleva più dare un buco, - aveva dormito da ultimo per un mese in casa di compagni - e ci sarebbe tornato ancora, se lui stesso, Cambiasi, un po’ per compassione e un po’ per simpatia, non gli avesse fatto dare una camera al quinto piano nella loro stessa casa in capo alla sua stessa scala.
Tutti saltaron su, protestando. Che pazzia! Era un compromettersi. Ma era una celia!
Cambiasi rispose ridendo: - Non era una celia. Egli aveva fatto alloggiare l’uomo, non l’idea. D’altronde, stando lì, non avrebbe fatto saltare la casa. E poi era puntuale a pagare, perché era un eccellente operaio. Ma d’operaio non aveva che il mestiere. Per istruzione, per maniere era un signore. Pulito come un dado, delle unghie irreprensibili. Voleva dar l’esempio. E che viso! Qualche volta l’avrebbero incontrato per le scale. Mai anima più ardita era stata piantata in un più solido corpo, e aveva lampeggiato in due occhi più terribili -, due punte di spade - due fori aperti nello sportello d’una fornace, il viso d’un fidanzato della morte. Doveva avere il sangue come acqua ragia, e dei muscoli da volerci un plotone di carabinieri a tenerlo. Cari miei, se ci fossero a Torino mille anarchici come quello, al 1° Maggio ci sarebbe la liquidazione sociale!
E dicendo questo, voltandosi verso la signora Luzzi, questa non fu più in tempo a rimettere il suo viso da un’espressione di curiosità ardente, - la quale gli fece volger gli occhi, con un sorriso, verso il viso notarile di suo marito, che dondolava il capo come in atto di pietà per quel fantoccio presentato come uno spauracchio.
E fu in quel punto che la cameriera annunziò il professor Bianchini.
Egli entrò e prese affettuosamente le mani del Cambiasi prima che questi avesse tempo a pregar con un cenno i suoi ospiti di non abbordar con l’amico l’argomento pericoloso. Appena lo vide, se pure non avesse saputo ogni cosa della Luzzi, il suo viso gli avrebbe fatto indovinare il suo stato d’animo e, presso a poco, tutto quanto era accaduto. Alberto, dal canto suo, che sperava trovar Cambiasi solo, si rimbrunì anche più vedendo la compagnia - fra cui due o tre dei suoi più maledici odiatori - che si scambiarono un sorriso e dei cenni, come per concentrarsi ad attaccarlo.
Era un effetto del lauto pranzo, era un leggiero dispetto egoistico che Alberto fosse venuto a gettare un’ombra su quella serata ch’egli s’era promessa tutta allegra - il Cambiasi non era quella sera in una disposizione d’animo adatta a piegarsi alla "situazione", ossia ad adoperarsi in ogni modo perché al suo amico fosse risparmiato un dispiacere. Abbiamo tutti di questi momenti di trascuranza, qualche volta quasi di picca quasi crudele con un amico amato che ci capita in casa a sproposito. Egli non fece quanto doveva per impedire che l’attaccassero. E quelli, già imbaldanziti dalle libazioni, presero anche più animo dal vedere in lui un turbamento, che poteva parere un principio d’avvilimento e di abdicazione segreta delle sue idee, non più sostenute che per punto d’onore.
L’attacco fu brusco e inopportuno, in mezzo a una conversazione che non vi dava nessun appiglio.
- Ebbene - signor professore - disse l’uno, la testa forte della compagnia, con aria di celia - come costruirà la società futura?
Il Cambiasi, sua moglie, la Luzzi vollero impedire, protestando contro quei discorsi; ma era tardi.
Il Bianchini guardò l’interrogatore, e rispose con noncuranza, come chi non vuol accettare la sfida: - Glielo dirò quando lei m’avrà detto come farà a salvar dalla rovina la società presente.
Ma tutti e cinque gl’invitati, aggruppati come per una lotta, allegri e petulanti, non accettavano quella scappatoia. Risposero tutti insieme. Non si poteva cavarsela con delle risposte argute. Bisognava venire all’argomento. Un po’ sul serio, un po’ scherzando affollarono il Bianchini di domande. Egli si schermì dalle prime, rispose con forzata pacatezza alle altre, e si trovò impegnato nella discussione più difficile per un socialista novizio - in quella del funzionamento dello Stato socialista. Non di meno, per un po’, la discussione non s’inasprì, - benché il professore fremesse.
- Come si farà - domandò a un certo punto il leader - come si farà nell’intero campo dell’unica produzione nazionale a ottenere che ciascuno lavori, produca con la minima spesa e col profitto massimo, ossia economicamente, come si fa ora? Crede lei che basterà il dire a ciascun lavoratore dei trenta millioni d’Italiani che è suo interesse di far fruttare il più possibile la sua trentamillionesima parte della proprietà nazionale? Crede che potrà mai prevalere negli uomini il sentimento della collettività a quello individuale?
Egli rispose senza esitazione: - Ma certo che prevarrà, e sarà ben naturale che prevalga quando sarà patente a ciascuno che non potrà trovare il miglioramento proprio che nel miglioramento generale. - Che non potrà star bene se gli altri staranno male - quando, invece d’essere completamente abbandonato a sé, come ora, si sentirà stretto alla comunità da un legame d’interesse e di conservazione evidente all’intelligenza d’un fanciullo. Chi può calcolare il mutamento che produrrà all’animo umano una tal condizione?
- Non ci ha altro? - Gli rovesciarono un sacco di obbiezioni con un tal coro di voci grosse, e soverchianti, che egli si voltò verso Cambiasi con l’aria di dire che non si poteva discutere. Cambiasi, credendosi interpellato, contro il suo solito, invece di sostenerlo con un’arguzia come aveva fatto altre volte, gli disse con un accento di benevolenza, di chi vuol farsi scusare la contraddizione: - Ma, caro amico, il sentimento che tu dici non potrà mai essere tanto forte da vincere l’istinto egoista dell’individuo incolto, la repugnanza che ispirano certi lavori, l’avversione stessa al lavoro in generale che è profonda in quasi tutti gli uomini...
Quell’accento e il suo sguardo che gli parvero di compatimento lo punsero così nel vivo che lo distrassero per alcuni momenti dalla discussione. Questa cadde sull’amministrazione dello Stato collettivista. Come si sarebbe potuta condurre una contabilità così enorme, così intricata, che sgomentava l’immaginazione? La sua risposta: che non sarebbe stata più enorme d’ora perché, crescendo da un lato, si sarebbe semplificata con l’abolizione di tanti parassiti attuali, da tante ruote economiche inutili, con l’introduzione appunto dell’ordine nella produzione, col rispandere una parte dello stato in collettività più ristrette, alle cooperazioni, alle Comuni - fu accolta da un tumulto di voci. In quello eran più forti di lui, e ne abusavano. E anche questa volta il Cambiasi, forse più per finirla che per dargli torto, gli disse con benevolenza, piano: - Bada, Alberto - pensa un po’: uno stato che dovrà farsi il regolatore generale dei prezzi, giudicare i prodotti, stabilire la quantità, ripartire il lavoro e i prodotti del lavoro...
- E la terra! E la terra! - gridarono le voci sempre più imbaldanzite e gioviali - Cosa regolerà quel piccolo affare della terra? Lo stato la darà in affitto ad associazioni agricole, è vero? - E un altro, con ironia brillante: - O la farà sfruttare direttamente, secondo vedute d’insieme, sotto una direzione unica, come un gran servizio pubblico nazionale? Già; e donde verrà l’incentivo al lavoro a tutti questi millioni d’impiegati rustici? - la frase fece ridere - che dovran lavorare la terra di tutti e di nessuno?
Qui Alberto cominciò a perder la pazienza. - Eh! via - rispose con un gesto - e d’onde viene l’incentivo a quelli che lavoran la terra ora? Debbo insegnare a voi che otto decimi della terra italiana è coltivata da gente che non ne possiede un metro quadrato?
Quelli insorsero con delle cifre, tumultuando, citando la cifra ingannatrice dei quattro millioni e tanti di proprietari. E il Cambiasi, benevolmente, rincalzò: - Ma, caro Alberto, non è il possedere che ora è incentivo al lavoro, è la possibilità, la speranza di giungere a possedere.
- Aah! esclamarono gli altri in coro.
Alberto fissò Cambiasi, e per la prima volta un sentimento di amaro dispetto gli sorse contro di lui - poiché è pur sempre vero, che, in una discussione in cui è impegnato il nostro amor proprio, ci ferisce di più la obbiezione moderata d’un amico su cui si contava che quella insolente d’un avversario dichiarato. E nella irosa confusione da cui si sentiva invadere, si sentì anche più umiliato incontrando lo sguardo della signora Luzzi che lo fissava con uno sguardo di pietà piena d’affetto, come per consolarlo, come se fosse un vinto, un umiliato.
E quando l’attaccarono coi soliti epigrammi intorno alla "monotonia" della vita, alla castrazione della libertà nello Stato futuro, il sangue gli salì al capo, e rispose con violenza, guardando torvo tutti, irritato d’una quistione personale. Eh! via, come avevano il coraggio di parlar di varietà nello stato presente? Cos’era? Dov’era? Era nelle scene eternamente ripetentesi della commedia pubblica? Nella stampa quasi tutta emanazione del feudo dei nobili e di camarille bancarie? Era nella vita mortalmente eguale dei lavoratori delle terre e dell’industrie, 7 decimi della società? Era nella vita dell’esercito burocratico? Era nella vita delle miriadi di laureati affamati questuanti per 10 anni di seguito il più misero posto? Era nei costumi che diventavan tutti eguali in tutti i paesi? Era nella letteratura tutta ispirata e fatta per una classe sola della società? O non era piuttosto in altra cosa che nelle guerre, nelle crisi commerciali, nelle rovine pubbliche e private, e nelle tragedie e avventure del matrimonio mercantile? E come s’osava parlare di libertà dove nove decimi della popolazione era legata dalla catena del bisogno ai detentori del capitale? Dove tutte le libertà, stampa, riunione, dimostrazioni, erano vincolate dalla condizione di non attaccare la minoranza dominante? La libertà era una parola per la gran maggioranza. Non c’era che la libertà d’una lotta rovinosa nel campo industriale ed economico, e la libertà di colui a cui la ricchezza, comunque acquistata, davano l’indipendenza. Tutte le altre libertà sono un fantasma. La prima, la più necessaria libertà manca, e solo il socialismo la può dare: che è il tempo, i mezzi dati al maggior numero, liberato da un lavoro eccessivo e da una lotta disperata per l’esistenza; di esplicare le sue facoltà più nobili e di alzarsi a un ordine più intellettuale di vita.
- No! no! no! - gridavan tutti - Nemmeno quelle facoltà più nobili si esplicheranno, nemmeno l’uomo salirà a un più alto grado di cultura che sotto la sferza del bisogno. È una verità chiara a tutti finanche a voi altri.
- Non è vero - ribatté con disprezzo - non è il bisogno che fa fare all’uomo quello che fa di più nobile e di più grande. Voi calunniate la natura umana per interesse.
- E voi, per interesse, l’adulate. La vostra società si fonda sulla supposizione bambinesca d’un’umanità d’angeli.
- E voi giustificate la vostra da quella d’un’umanità di bruti.
- Siete voi - disse il leader - che volete mettere i bruti al nostro posto.
Alberto non ci vide più, e replicò con tanta più calma quanto più era insolente la risposta, con vero intento di provocare, - adagio:
- In tal caso, non ci sarebbe nulla di mutato. - L’offeso dopo meditata un momento la risposta, s’alzò in piedi maestosamente. E il Cambiasi, risentito, disse piano ad Alberto, severamente: - Alberto, tu offendi i miei amici in casa mia.
- Sono io pure tuo amico in casa tua - rispose questi con lo stesso tuono - e ospite non gradito, mi pare.
Cambiasi non rispose, e si unì agli altri, con cui parlò a bassa voce. Alberto, mutato in viso, andò dall’altra parte a parlar con le signore. La buona signora Cambiasi deplorò l’accaduto. - Ma come mai, inasprirsi così, dopo che pareva già quasi d’accordo?
Dopo pochi altri minuti, Alberto prese il cappello per andarsene. Cambiasi gli fece un cenno - che aveva da parlargli, e uscì a prendere il cappello lui pure per accompagnarlo fin nella strada.
In quel punto la Luzzi s’alzò, e avvicinatasi ad Alberto ch’era già in disparte, gli disse con sincero accento di preghiera e di ansietà: - Alberto, la supplico, non si rompa col Cambiasi! - E v’era nei suoi occhi tutta la bontà dei suoi migliori momenti passati. Alberto la guardò con un vivo senso di gratitudine, ma istantanea: il pensiero che su quella bocca poteva essersi posato quel giorno stesso un bacio del Barra, malgrado tutte le sue idee di eguaglianza sociale, lo ferì come un’offesa e gli ricacciò in gola la buona parola che stava per uscire.
Cambiasi tornò, ed uscirono. Ma non fecero insieme che metà delle scale. Cambiasi gli fece dei rimproveri: egli li respinse duramente. Capiva di eccedere; ma non si poteva contenere. Era come una piena di rancori che aveva con altri che lo portava contro di lui.
- Alberto -, gli disse Cambiasi arrestandosi sul pianerottolo - Tu sai che io comprendo le tue idee, che comprendo la generosità che ti muove. Ma tu sei fuor della via retta. La tua esaltazione non proviene tutta dalla tua fede; viene dal tuo orgoglio ferito. Ravvediti. Tu sei in uno stato morboso. Tu mi fai pietà.
Alberto si scosse. - Me ne sono accorto dal tuono con cui m’hai parlato stasera, spalleggiando delle persone che mi odiano e mi diffamano. Ma tienti la tua pietà, se non mi puoi dare la tua amicizia.
Cambiasi lo guardò, e disse: - Tu non sei che un ingrato.
- E tu - rispose violentemente - un borghese.
- Basta -, ribatté Cambiasi, - io so il senso che tu dai a questa parola. Io non la posso tollerare. Tu dai un calcio all’ultimo dei tuoi amici.
- Non posso più avere amici nella mia classe.
Cambiasi scrollò il capo, gli afferrò le mani con pietà e affetto. Egli, facendo un violento sforzo sul cuore che cedeva, le svincolò.
- E allora addio -, disse Cambiasi trasportato dallo sdegno - Ritornerai uscendo dal manicomio. - E voltando bruscamente le spalle per tornar a casa, non vide, per fortuna, un atto d’ira cieca, un tentativo brutale e insensato che quegli fece, e che lo lasciò sconvolto, preso da un grande pentimento improvviso, benedicendo il caso che non lo aveva lasciato compiere.
E uscendo, oppresso da una grande tristezza, un dubbio gli balenò - un dubbio già presentatosigli altre volte - ma non mai con tanta forza, non con una affluenza così impetuosa di pensieri quasi simultanei e lucidi, somigliante a un coro di cento voci che gli parlassero tutte insieme intelligibilmente, confutando le sue idee, con l’accento irresistibile della convinzione. Era egli nell’errore? Era vittima d’una grande illusione? L’aveva spinto per quella via un’ambizione nascosta a lui stesso? Vi si manteneva per ostinazione dell’orgoglio ferito? Avrebbe un giorno mutato ancora per un rivolgimento irresistibile della ragione e della coscienza? - E a questo dubbio, un immenso sgomento lo prese - il pensiero di tanti dolori inutili dati a sé e ad altri - la carriera perduta - il ridicolo e il disonore d’una seconda apostasia... e questo sgomento fu così forte che lo arrestò, quasi atterrito, in mezzo della via. Ma fu breve. Con un vigoroso sforzo del pensiero, egli discese in fondo all’animo suo, interrogò i suoi più riposti sentimenti, - l’immensa pietà delle miserie e dei dolori - il suo amore infinito delle moltitudini - i suoi più bei momenti d’entusiasmo - tante ragioni, lampi di menti di genio che l’avevano persuaso - il vasto movimento di tutti i popoli... - e con uno slancio di gioia si risentì improvvisamente le forze, la fede, la sicurezza di prima. E subito dopo gli si riducevano i rancori e gli sdegni contro le ostilità, le calunnie, le persecuzioni, e un bisogno imperioso di reagire, di romperla, di fare un ultimo passo decisivo. Sì, avrebbe parlato agli operai - quel tal giorno - e sarebbe andato più in là di quello che aveva pensato - avrebbe finalmente espanso l’animo suo in un ambiente amico - avrebbe ritrovato la serenità e la salute dell’animo nell’azione - sì, pensò -, o tutto è fatalità, illusione e menzogna - o questa è la verità, questa è la giustizia, questo è l’avvenire.