Pietro Gori

1891 raccolte di poesie letteratura Prigioni Intestazione 16 maggio 2009 50% raccolte di poesie


PIETRO GORI

PRIGIONI

VERSI



Agli amici, ai lettori

Per volontà del compianto Autore e per conto della di lui sorella, Sig.a Bice Gori, ho assunto, non senza trepidanza, l’incarico di pubblicare in volumi tutti gli scritti Suoi; da quelli pensati e vergati nei primi anni giovanili, tutti pieni di vita, di squisiti sentimenti, di baldanza e di entusiasmi; fino a quelli ultimi, quando cioè Pietro Gori era già passato attraverso un incessante turbinìo di lotte, di passioni, di amarezze, di studi, di osservazioni e di esperienze imparate a ben caro prezzo, ora in questa, ora in quella terra d’esilio. La Sua natura di poeta e di artista aveva saputo dare al travagliante problema umano e sociale uno speciale risalto, un affascinante contorno di passione, di bellezza e di gentilezza.

Egli si sentiva trasportato dall’arte e faceva dell’arte anche quando spiegava alle doloranti turbe la questione sociale, nelle sue varie ramificazioni economiche, politiche, sociologiche.

Quindi sarà per tutti, anche per coloro che militano in opposti campi politici da quello in cui tanto valorosamente militò Pietro Gori, non privo d’interesse e di studio leggere e meditare quanto la mente Sua ha saputo trasmetterci.

Oltre ai non pochi pregi letterari, i suoi scritti hanno quello assai maggiore di rappresentare — per chi sa sentire palpiti di vita vissuta con ardore, con sincerità e con tenacia attraverso tutto un calvario di persecuzioni e di dileggi. Ed egli spiega da qual sublime fonte -dall’ideale- attingeva la forza e il coraggio per resistere alle nequizie umane e per combatterle, e, da esso traeva gli slanci eroici per additare ai reietti e ai dubbiosi le lotte gagliarde e belle da seguirsi per conquistare la libertà di pensiero e il diritto ad un’esistenza civile, operosa, felice senza pregiudizi, senza vincoli e senza catene. Quale splendido esempio di attività e d’azione ha lasciato a tutti e specialmente ai giovani che si affacciano oggi alle prime battaglie della vita e del pensiero! Quindi nessuno meglio di Lui poteva scrivere fin d’allora, or sono vent’anni, la prefazione di questo primo volume, che rappresenta il primo periodo della sua esistenza travagliata di gentile e valoroso cavaliere dell’umanità. Seguiranno a breve distanza gli altri volumi, e il loro retaggio di compianto, di affetto, e di alta stima che l’Autore ha lasciato dietro di sè, fa sperare che coloro che nutrono sentimenti di libertà, sapranno rendere alla memoria Sua il migliore omaggio, diffondendone le opere e il pensiero. Dal canto mio proponendomi di curare con affetto fraterno la pubblicazione di tutto questo suo tesoro di sacrificio, d’intelligenza, d’amore, oltre ad adempiere ad una promessa, sono sicuro di fare opera buona alla causa della libertà e della giustizia; ed è ciò che più di tutto ambisco di conseguire.

Uomini d’intelletto e di cuore, lavoratori della mente e del braccio, cittadini di tutte le patrie, ricordatevi che è per voi che il gentile poeta del dolore ha scritto, parlato, combattuto e molto sofferto; quindi tutto quanto la Sua mente ha pensato, il Suo grande cuore ha dettato, è interamente affidato a voi.

Siatene gelosi custodi e instancabili assertori.

LA SPEZIA, MARZO 1911 PASQUALE BINAZZI


AL POPOLO ED A QUANTI COMBATTONO PER L’UMANESIMO

On dit: «Triste comme la porte D’une prison. » - Et je crois, le diable m’emporte! Qu’on a raison.

A. De Musset, Le mie prigioni.


Pro se et justitia.

Non c’è rimedio — pensavo tra me nei primi giorni di solitudine, entro il carcere giudiziario di Livorno — se la cosa va per le lunghe, sento che qualche delitto finirò per commetterlo da vero. Detto fatto. Il delitto, oramai, è commesso. Vogliamo muovere in compagnia, o amici lettori, alla ricerca delle responsabilità nel commesso reato? Sentite. Il mandato di cattura fu spiccato (oh infame gergo curiale)! dall’ecc.mo sig. giudice istruttore presso il Tribunale di Livorno il 12 Maggio 1890, in virtù dell’art. 190 e 63 del Codice Penale Italiano e relative disposizioni di coordinamento, e col pretesto di un’altra mezza dozzina di reati, più o meno politici, che mi si attribuivano. L’arresto avvenne nella notte stessa. Il processo circa tre mesi dopo. Eravamo quindici imputati di ribellione, eccitamento allo sciopero, al solito odio fra le classi sociali ed altre simili diavolerie, rappresentate da una filza di articoli di quell’aureo trattato di moralità ch’è il codice delle pene. Io poi, col vantaggino di rincalzo che mi innalzava all’onore di capo e promotore della grande manifestazione operaia del 1º Maggio in Livorno; ciò nella pia intenzione dell’accusa di farmi regalare qualcosellina di carcere, più degli altri, come supposto istigatore — causa, morale dicono loro — della rivolta contro la polizia. In fondo, io non era colpevole, che di aver seccato quei miei poveri e valorosi operai di Livorno con delle conferenze. Le chiacchiere, in certe questioni, sono colpe; lo confesso. Ma allora, per quelli eterni chiacchieroni di Montecitorio non c’è nessuna medicina del Codice Penale? Io non fui mai, è vero, un predicatore di mansuetudine, di pazienza. Non, credo che la virtù dell’asino tanto raccomandata da altri al popolo, sia una buona panacea per i suoi mali. Quindi agli artieri di Livorno, a quei gagliardi lavoratori di mare, dagli entusiasmi e dalle audacie leonine e dalle gentilezze di fanciulla, a quei contadi dei verdi colli tirreni non ho mai insegnato — milite oscuro ed ignoto qual’io sono — che alla conquista del pane e dei diritti si muova, snocciolando rosarii e biascicando paternostri, od aumentando di qualche grado la curva consuetudinaria del groppone innanzi agli idoli vecchi, e nè anche a quelli nuovi; non ho mai detto che la manna venga dal cielo, come a’ bei tempi di Mosè, e non ho mai contato di apologhi bugiardi, come quello di Menenio Agrippa, l’antico mistificatore della tribuna storica di Monte Sacro, nel cospetto della plebe di Roma. Ma nè anche ho affermato che pigliare per il collo o per le orecchie una guardia di P. S., anche se è poco garbata, (mio dio, a questo mondo si può essere anche maleducati e guardie di. P. S. al tempo stesso) sia po’ poi un’azione eroica; e nè anche ho raccomandato di prendere a calci quei poveri salariati, che vestono divisa e portano lucerna, e mettono con tanta delicatezza le manette perchè credo che le pedate e gli storcidicollo (come dicono a Livorno mangiandosi il secondo c) dati così a casaccio, e non a chi più li meriterebbe, se mai, non sieno le ricette più efficaci a guarire i mali della società. Ma in quel buffo processo ci aveva in ogni modo ad essere una causa morale. — Anche perchè un esempio, dicevano, bisogno darlo; e darlo si poteva, interpretando a dovere il nuovo codice-monumento.

Dunque, alla ricerca della causa morale! E tutti, grossi e piccoli poliziotti, istruttori, accusatori, giudici inforcarono occhiali e lenti inverosimili per rintracciare il grosso babau della festa. Il 12 Maggio, di notte, dunque, questa causa morale, incarnata nell’umile scrivente riceveva la gratuita ed obbligatoria ospitalità dei Domenicani, il vecchio carcere che risente ancor tanto dell’antico monastero; gli ultimi di Luglio cominciò innanzi ai liberi magistrati del Tribunale di Livorno la sfilata dei questurini, dal loro generale in giù — compreso qualche avvocato che dimostrò molta disposizione per quel nobile ufficio il 1° di Agosto un oculato ed integerrimo sostituto Procuratore del re chiese per me con molta disinvoltura tre anni di reclusione, ed un migliaio di lire di multa; e meno male che l’acquerugiola uggiosa e retorica dell’accusatore fu presto dimenticata, e travolta via dalla fiumana luminosa di eloquenza, di dottrina, e di affetto di tre illustri e benevoli amici miei Enrico Ferri, Angelo Muratori e P. Francesco Erizzo — e di altri gentili e forti colleghi della curia livornese. Il 4 poi, dulcis in fundo, venne fuori una elaborata sentenza — un giornale cittadino, assai tenero di quei famosi fondi, la chiamò così; Angelo Muratori invece si contentò in faccia ai giudici di dubitare che fosse perfino bell’e preparata, e che l’imbeccata fosse venuta dalle rive del Tevere — quello che di certo si potè constatare, è che, oltre parecchi strappi alla grammatica, alla sintassi e ad altre cosuccie che per dir vero nulla han che vedere con monna Giustizia, quello scrittarello lì mi rubava allegramente, come se nemmen fosse lui, dodici mesi di vita libera. Ora, in coscienza, mi avrei a male, se qualche lettor maligno pensasse, che io racconti queste cose per circondare d’un po’ d’aureola di martirio questi miei versucciettacci. E’ vero che, per i soliti difensori del trono e dell’altare, chi si trova in queste pèste per delle idee così strampalate deve battere il mea culpa. Ricordo anzi, che il fante di picche in quel famoso giuoco, che terminò con la mia condanna, il pezzo più grosso della polizia, che figurò in quel mio processo, ebbe la faccia tosta di dire che certe idee — scusi, o i processi che esse mi tiran dietro, ogni tanto, perché no? — io le professavo ... per speculazione. Hop la, signor commendatore, io non difendo principii che mi assicurano una pagnotta, o mi consentano di razzolare in bassi ... fondi. Da ragazzo — per dio, come la pigliate lontano voi — ho battuto parecchie volte le mani alla marcia reale; che seria professione di fede politica! Mio dio, sì, ho perpetrato qualche rugiadoso telegramma al re; e, guardate che solenne monelleria, ho fatto anche degli altarini fra le ragnatele d’un sottoscala nella mia vecchia casa, all’Elba; ed ho fatto — oh indizio di precoce malvagità rivoluzionaria! — perfino alle sassate sui poggi solitari e solenni della Maremma. E che razzie per quegli orti, e che scalate su per quei ciliegi carichi, e che scorpacciate di susine acerbe nei giovedì scintillanti del giugno, quando la scuola del vecchio prete faceva vacanza, e le cicale strillavano sui pioppi e per le olivete, e i pini stormivano, col rumore di mare burrascoso in lontananza, e le raganelle gracchiavano in fondo ai botri serpeggianti fra l’erba. — Oh primi soavissimi schiaffi al codice penale innanzi a tanta serena onestà della natura! E quando il proprietario, armato di una pertica ci dava dietro in nome della sua plena in re potestas, doveva essere un gusto veder me coi miei piccoli complici, sgattaiolarcene in cima al poggio, e di la sù, trafelati, fuor di tiro della pertica sguaiata, poggiando il polpastrello del dito pollice sulla punta del naso, agitare le altre quattro dita, in atto di sfida, mentre la sinistra, dimenando l’altro pollice tra l’indice ed il medio, rispondeva fico alle sfuriate dell’inviolabile, benché violato istituto della proprietà nei suoi legittimi rappresentanti: pertica e proprietario.

Vede? Proprio così, signor commendatore. Chi volesse poi affermare, che in carcere si stia molto bene, direbbe proprio una bugia grossa. Senza dubbio i primi giorni sono una novità per l’osservatore sereno dell’ ambiente e dei tipi che vi s’incontrano. Ma poi cominciano, lungo le serate eterne, al tremolio di un lumicino a olio, le veglie solitarie, le insonnie angosciose, gli incubi crudeli. Durante l’istruttoria del processo l’ufficio della procura del re si diverte un mondo a punzecchiare in mille modi l’inquisito — c’è per qualche cosa un primo stadio inquisitorio nei procedimenti. Oggi un colloquio negato a persona cara, domani una lettera sequestrata, specie se si tratta d’un imputato politico. O mio secondo fratello, che dormi nel bel camposanto, innanzi al quale tante volte passammo giovini e lieti di speranze battendo la bianca via Maremmana, o mio buon Luigi, tu lo misurasti il cuore di quella gente lì, quando — presago quasi del fine immaturo che ti aspettava — domandavi di vedermi almeno una volta. E non ti fu concesso. Io nè pur morto ti vidi. Quante folate di poesia gentile e fresca e quanti sbuffi di polvere scura passavano tra i rami intristiti delle memorie in quei pomeriggi, accidiosi e cocenti di Luglio! Ricordo: un giorno - c’era gran festa in quei dì, mi dicevano i secondini, per le vie della città; dentro i Domenicani, saettati dal solleone, c’era, in vece, una gran mestizia quel giorno — avevo dovuto inghiottire una paternale (cosa ferocemente ipocrita di capo carceriere beneducato a detenuto facinoroso) per una poesia "Giustizia" che fa parte della presente raccolta, e che io avevo trovato modo di far pervenire alla redazione d’un giornale battagliero il “Sempre Avanti” che si pubblica, a sbalzi, ma da non pochi anni, in Livorno. La poesia era la mia risposta alle basse accuse, di cui mi avevano gratificato in processo accusatore e denunziatori... ex officio. - Fu pubblicata, e, senza esser colpita di sequestro — sfido io, avevano con chi pigliarsela di sotto mano quei signori — mi procurò così lunghe noie e punzecchiature, per le quali mi sono persuaso che qualche ammaccatura buona, quella poverina venuta sù senza pretenzioni, ed uscita dal mio carcere parecchi mesi avanti di me, deve averla pur fatta nel grugno di chi m’intendo io. Il torto suo, con le piccole seccature che mi tirò addosso, fu quello di mettermi nel cervello così come un tarlo roditore, l’idea di pubblicare questo libro: di perpetrare, con esso, qualche cosa che avesse il sapore di una frustata, e, magari, di una cattiva azione per gli uni, gli avversarii; affinchè gli altri — gli amici ed i benevoli — alla estetica, più o meno negativa del lavoro compiuto, non stessero poi a guardare con tanta sottigliezza, pensando ai botoli rabbiosi, che mi ringhieranno dietro le spalle, e perdonando molto a chi molto ha amato. E molto, anche, odiato, e con ragione. Prima di quel giorno afoso di Luglio, senza sapere il perchè, avevo pure composto dei versi; e mi pareva, che in quel modo, confidando i miei pensieri a un pezzettino di carta, strappato a qualche lettera paterna non scritta per intiero, od a qualche spaziuccio di muro bianco, potessi anch’io darmi l’aria di non essere più tanto solo. Avere pur l’aria soltanto d’essere in compagnia di alcuno, visibile od invisibile, muto o chimerico, è già qualche cosa che rasenta il lusso in quella esauriente solitudine del carcere. Dunque avevo scritto parecchi versi. Qualche cosa avevo composto, col semplice uso della memoria, da prima con fatica indicibile — non essendo mai stato, per fortuna mia e degli amici, che il destino da ciò preservi, poeta estemporaneo. Poi, a poco a poco, esercitandomi di continuo, nei giorni, in cui la vigilanza del corpo carcerario era maggiore, o quando imperversavano le perquisizioni; mi accorsi, che i versi mi cominciavano a sfilare con assai disinvoltura per la mente, come soldati di buona volontà contro il nemico; e già mi era messo l’animo in pace, perchè mi pareva, che anche con quei sistemi non indicati dalla scienza ufficiale, ma imposti dalle necessità della guerra spicciola, i movimenti fossero regolari, e che nessuno dei miei soldatini zoppicasse. Anche ora, pur troppo, ho questa pia convinzione. Chi sa, che qualche critico maligno in nome della strategia ortodossa, non se la rida oggi sotto i baffi insegati di feld-maresciallo della repubblica... letteraria, di tali mosse forzate del mio piccolo eserci. to; ora che, ahimè, quelle guerriglie di endecasillabi, e di settenarii, quelle scaramuccie di esametri e di pentametri sono riprodotte ed inchiodate lì sotto il naso arricciato del buon pubblico, che paga, e che ha ben diritto, sicuro è un vero e sacrosanto diritto cotesto, di fischiare, e di far calare la tela.

E fischiate pure, signori, fischiate di buzzo buono. Ciò non esclude che, non avesse ad essere gradevole alla mente, assorta nel silenzio infinito della cella, questo tremolio di cellule nel cervello solitario, questo brusio di atomi, che pareanmi suoni, strofe, idee assumenti perfino l’aspetto di concezioni nuove e fresche innanzi alla interna fantasia. Il lettore non le sa queste cose, non le può, forse, nè meno comprendere; ed io non ho il tempo, nè la voglia, nè l’abilità di maneggiare qui il pericoloso coltello delle anatomie psicologiche, per comodo del buon pubblico che ha comprato il libro, il quale d’altronde (il pubblico non il libro) se vuol levarsi il gusto di far uno studio obiettivo su questo teatro sanguinante di tragedia e di realtà che è il carcere, può ben pigliarsi il disturbo di recarvisi in persona... per uno di quei tanti modi indicati, se bene negativamente, dal Codice Penale. A questi lumi di luna e di governi, una ricetta sicura per andarci infallibilmente, almeno una volta l’anno, eccola: essere amante, e non pur burla o per solo platonismo, del popolo e della sua rigenerazione completa, senza restrizioni mentali o patriottiche; mescolarsi alle sue agitazioni, unire la propria voce al brontolio della gran pentola in bollore, e la propria penna al fascio di quelle, che non parteggiano per alcuna chiesa e per alcun pontefice, ma dicono la verità nuda e cruda sul muso ai pontefici scomunicatori, ai capoccia, che fanno la voce grossa per ogni atto di ribellione vera e ardita di coscienze e di braccia, ai pappagalli rossi, che sbrodolano della retorica secentista, ed agli ufficii del Fisco, (diamogli pure l’f maiuscolo) i quali credono di salvare la società barcollante, col gridare l’ alto là a chiunque esca un tantino fuori dalle tonalità serafiche ed argentine della stampa usuale, con le audacie e con i clangori burrascosi di un po’ di musica... dell’avvenire.

Quando poi uno è conosciuto un zinzino fazioso, tutto ciò può essere anche superfluo. Basta che costui faccia una conferenza, in cui anche per semplice fioritura d’ immagini figurino le parole scintilla, battaglia, avanti; che le orecchie lunghe (per l’uso s’intende) di qualche agente ausiliario dei soliti, dotati, come ognun sa, di quella soda cultura ed intelligenza naturale per cui va così celebrata la polizia italiana, raccolgano, di sotto le finestre, tali parole e per il tramite delle sullodate orecchie le trasmettano al relativo cervello, essiccato dai preconcetti, dal mal animo, dalle paure di perdere il pane... sudato, se la conferenza non arrivasse a sembrare poi abbastanza rivoluzionaria al capo d’ ufficio. Basta che quegli agenti compariscano in un processo in cui sia coinvolto il conferenziere, che dei giudici, scelti tra i più amanti dell’ordine... di S. Maurizio e Lazzaro, sieno chiamati a giudicarlo; che almeno un questore in soprabito di taglio molto discutibile, venga a rivelare, fra molte oscure cose e con una posa tragicomica, che in Italia siamo tutti... liberi. Basta infine, che ci sia qualche imperativo categorico venuto per telegrafo da Roma, ed un sostituto procuratore del re (ahi non anche cavaliere !) che muova alla caccia della promozione e del ciondolo - atteggiandosi sul banco dell’accusa a salvatore delle istituzioni e della società — per guadagnarsi, a dir poco, qualche anno di pane... (un po’ nero) a spese dello Stato e per acquistare poi la frègola di stampare, magari, un libercolo di versi. Ponete pure, o lettori, che qualchecosa di simile sia proprio accaduto a me.

Merita il conto, però, di indicare il modo, per il quale un detenuto politico nelle carceri del felicissimo regno d’Italia può, a dispetto dei regolamenti, ingannare il tempo coll’infarcire dei versi. S’intende che nessuna concessione in questo senso, ed è naturale, verrebbe accordata all’ufficio della Procura o dalle altre autorità competenti; perchè le case di custodia e di pena, in Italia almeno, a tutto possono servire, eccetto che ad elevare alquanto l’intelligenza con qualche onesto godimento intellettuale; molto meno poi ad ingentilire il cuore, nulla omettendosi invece per inasprire gli animi dei reclusi, con disposizioni frequentemente odiose, quasi sempre inconsulte. Cosa curiosa poi: le idee, nella giurisdizione carceraria, sono tanto più grette e talvolta ridicole quanto più vengono dall’alto; e il personale è tanto più cortese ed umano quanto più scende in basso. A nessuno di quei poveri secondini, spinti dalla fame e dal bisogno a vestire quella lugubre divisa, io avrei da rimproverare le feline e garbate crudeltà di qualche sostituto della Procura, e di qualche direttore di carceri. In barba però a tutte le rigorose disposizioni ordinate per il mio isolamento, e per infliggermi quelle maggiori privazioni, che fosse possibile, trovai pur modo di venire in possesso di una matita microscopica, che fu la mia complice in quasi tutti i reati, che, messi ora alla berlina di questo libruccio, attendono senza speranze e senza paure il verdetto del pubblico.

Il modo, il luogo, il tempo, le ansie continue di un processo nel quale intravedevo un lungo lavorìo di macchinazioni tenebrose e nemiche; i fatti luttuosi, di cui giungeami nella prigione l’eco sinistra dalla mia casa; le trepidanze del sapermi, del sentirmi spiato, le molestie e l’uggia di una legione di insetti, ronzanti nell’afa della cella tutto il santo giorno e lungo le notti maledette, la demolizione lenta e inesorabile di tutto il mio corpo sotto il rosicchiamento assiduo di una intiera varietà di parassiti, la mancanza di aria, di luce, di sole; queste e tante altre cose, non belle e non poetiche, potranno essermi computate come circostanze attenuanti? Poi, si pensi, non il biancore di un foglio ampio, che solletichi la fantasia a linearvi qualcuna delle interne visioni, e conforti il sentimento alle dolci confidenze delle strofe e delle rime. No. Invece, qualche brandelluccio di lettera venuta di fuori, ed offrente a mala pena i suoi spazii bigerognoli tra i filari già scritti. Mi parevano fossatelli d’acqua palustre fra le propaggini scure dei campi in decembre quelli spazietti. — « É lì, proprio lì, mio caro, che bisogna buttare, alla meglio, queste nostalgie in versi, queste noterelle rimate, o peggio, della tua vita carceraria. » Così mi punzicchiava in un cantuccio del cervello il tarlo assiduo di una idea. Io, sciocco, posi mente ed ascoltai questa voce pericolosa: così via via, quando me ne pigliava l’estro, e mi capitava il destro, dato un calcio ai codici, andavo ad annegare l’umor nero delle mie ribellioni psicologiche in quei fossatelli, di cui dicevo or ora, e mi pareva — chi sa perché? — fino in un bagno così poco igienico, di trovare un refrigerio all’arsura di quella gran caldana di monastero sfratato, e un po’ di assopimento alle frenesie ed a certi arrovellamenti tempestosi del cervello, che mi andava in fiamme. E scrivevo, senza curare la forma, senza ritoccare.

Molti, i più anzi, di quei versi, che ora visti quì fuori, alla luce del sole, mi paiono assai più contorti e poveri di allora, non ho voluto più limare, perchè — e sarà forse una mia idea bislacca — io credo che perderebbero quel loro carattere di cosa vissuta, che resterà, forse, l’unico loro pregio, ed agli occhi dell’arte ortodossa, il principale loro difetto. Qualche alienista illustre — chi sa? — ne falcidierà alcune strofe, come documento umano, per qualche trattato d’antropologia-criminale sui delinquenti politici. Si serva pure. Se mai, per la scienza, è bene che il documento sia, quanto più è possibile, il riflesso primitivo, e meno alterato da successivi artificii, dei singoli movimenti psichici, che lo hanno prodotto. Qualcuno, forse, sarà curioso di conoscere la via, per la quale i miei appunti evasero dal carcere; oh non certo dalle inferriate, signor Direttore di mia dolce memoria; dalle inferriate, su cui scocca la duplice e sonora battuta matuttina e serale, non scappano mai nè bigliettini nè prigionieri. Voi lo sapete bene, che siete un carceriere vecchio: i detenuti — gran comoda gente costoro — se ne scappano via sempre, tranquillamente, dalla porta.

Così — guardate combinazione — fecero i miei versi. Ma ne scapolarono delle belle, avanti di potersene uscire all’aperto, poveri foglietti miei confidenti! Anche da queste ignote pagine .che tu, forse, non leggerai, io voglio ringraziarti, o giovinetto ed onesto carcerato, che fosti il complice necessario di questa evasione; su te almeno non scenderà l’ira della gente per bene scandolezzata al mio novo delitto; tu corri i mari, o amico mio, e bene altre ire — ire di marosi e di tempeste - tu affronterai; quì tra questa caligine di pianure fangose io porterò solo la croce e la pena di quei miei scarabocchi, cui tu, compiacente, procacciasti la fuga. Potessi anch’io, come te, gettare lo stornello Toscano nelle solitudini del Pacifico solenne, combattere contro la raffica omicida e contro la bonaccia crudele, e non più vivacchiare in compagnia di cotesti uomini di carta-pesta, e con questa arte vigliacca di leguleio; comporre un poema di fatiche feconde e di battaglie vere, costà lontano, sui cavalloni rabbuffati, in faccia al sole che sanguina tra i nuvoli neri; scrivere l’esametro spumeggiante col timone nella pagina immensa del mare, quando il brigantino solitario scricchiola sotto il vento furioso, e le antenne svettano come cannuccie di padule, e i sartiami hanno gemiti ed urli come di naufraghi travolti lontano; scrivere il carme novissimo del lavoro, là sù, sui pennoni rollanti, alla manovra delle vele, pendulo sull’abisso clamoroso, quando gli alberi tracciano le ampie strofe del rollìo e del beccheggio, col tragico ritmo della tempesta, nella classica profondità del cielo. Essere, come te, una particella vivente di questo inedito poema dell’infinito.

Questo avrei voluto, questo, se io potessi, vorrei. Ed allora alla spampanata fioritura letteraria di questo giardino d’ Europa, ove accanto agli affamati, ai pellagrosi ed agli abbondanti commendatori prosperano visibilmente i versaioli più o meno ribelli... per celia, non sarei oggi io, oscuro e mal pratico coltivatore, venuto ad aggiungere questo mio rosalaccio, rosso e nero, nè certo per amor di parata, e la giovinezza non mi sfiorirebbe ora così triste, lontano alle consapevoli scogliere del nostro Tirreno; e cose ben più utili ed oneste avrei operato; e come le tue, o giovinetto marinaro, sarebbero le mie mani incallite in un lavoro nobilissimo e produttivo sui velieri e sulle calate dei porti, anziché il mio cuore disseccato nelle tenui battaglie della penna, e tra le frottole della giustizia codificata. I miei primi scarabocchi, dicevo, trovarono dunque il modo di uscire; non io, che dopo la pubblicazione della poesia «Giustizia » una mattina fui condotto, con grandi e ridicole precauzioni a Lucca, nel penitenziario di San Giorgio — pendendo tuttora l’appello contro la sentenza del Tribunale di Livorno ed ove rimasi finchè la pena non fu intieramente espiata. Molti versi di vario genere nella furia di questa traduzione (per dirla col vocabolo della burocrazia carceraria) andarono smarriti, e, buon per i lettori, non figurano in questa raccolta, e ormai resteranno per sempre brandelli inediti di quelle ore perdute negli amplessi tristi con le muse solitarie del carcere. Nella mia cella del San Giorgio — numero 9 — questi amoreggiamenti sterili, ahimè, non seppi abbandonarli.

Ma gran parte delle povere fantasie io confidai ai muri bianchi di quella stanzetta, ove certo troveranno lettori meglio appassionati del genere, ed ove questi frammenti di vita vissuta, nella gran malinconia dell’austero penitenziario, saranno più comprensibili che non sulle pagine nitide di un elzeviro... se la solerzia di quel degno direttore non avrà già fatto sparire le sconsolate traccie del mio peccato. Unici residui di quelle non restano, ormai, su questo libro, che i versi imparati a memoria, i quali, naturalmente, sfuggirono alla ultima perquisizione di prammatica, fatta sull’uscio del carcere.

Un altro disgraziato consiglio di pubblicare i miei versi di carcerato, dei quali si buccinava non so che cosa mai di ribelle e di demolitore fra i secondini e fra i detenuti, mi venne, l’ulti- ma notte di prigionia, a traverso la muraglia, da un vicino di cella sconosciuto ed invisibile, che io forse nella vita non incontrerò nè conoscerò mai più. C’è, in quel mondo mestissimo dei ripudiati dalla società, tutto un idioma convenzionale, che mi fu d’uopo apprendere e che appresi, non senza difficoltà. Anche in quella notte taciturna di Novembre, dei colpi regolari battuti dall’altra parte del muro e con una progressione numerica corrispondente alle lettere dell’alfabeto — fecero vibrare nel silenzio della mia stanzuccia il saluto di un condannato, che sapeva qualche cosa di me, e che mi augurava bene nella imminenza della mia liberazione. E con quel saluto c’era il consiglio di farlo, questo libriccino di vita carceraria. — Che io dessi infine senza paura, come potevo, uno schiaffo a questa società matrigna dei molti; che ci sarebbe stata un po’, in questo, anche la sua vendetta, la vendetta di lui, poverino, che non aveva mai conosciuto che triboli e pene, e che non si vergognava, in fondo, di aver rubato, quando non aveva più trovato da lavorare e da mangiare.

Povera voce venutami dai muri palpitanti del carcere, il tuo consiglio è stato seguìto: il libriccino è stampato. La società, certo, riderà di me, dei miei versi, di te, del tuo consiglio — ride di tutto, che non sia oro sonante, lei.

Il giorno dopo avrei abbracciata mia madre, avrei riveduto i miei cari, avrei portato un fiore ad una tomba recente; salutato gli oliveti della maremma, il mare turchino! Oh gli sbuffi dell’aria fresca nel viso, gli amici, i compagni a torno festanti, la vecchia casa, che sentì le mie grida di fanciullo, la grande cucina scintillante per le fiammate, nelle sere d’inverno! Alla vigilia di tutto questo, il saluto del vicino di cella mi strinse il cuore; quell’augurio, senza invidia, con un sapore di effusione infinita, mi fece pensare.

Se ci penso ancora, mi par d’essere certo, che quel povero cencio vivente, strapazzato di qua e di là per le prigioni, abbia più cuore di alcuno, che veste la toga, e sostiene con molta abbondanza di retorica le cosidette ragioni della difesa sociale. In quell’ora notturna, piena di ricordi e di speranze, tu fosti pietoso con me, o povero carcerato; io non so il tuo nome, ma ricordo ancora le tue parole gentili. Ti credo generoso ed onesto, assai più che certi strenui difensori della proprietà privata nonchè oziosi divoratori delle fatiche altrui; e stringerei la mano a te, o buon ladro, più volentieri che ad alcuno di quelli che accusano senza pensare, e che condannano senza riflettere. Non rimpiango certo che il tuo consiglio abbia avuto complicità nella divulgazione di questi delittucci ritmici, che hanno per sè le diminuenti dell’ impeto d’ ira e del giusto dolore. Se c’è un pochino anche la tua vendetta, tanto meglio.

Per svergognare questa sgualdrina vecchia — la società — lo schiaffo avrebbe ad esser potente, solenne, dato con mano poderosa e sicura. Il core non mi manca; ma i muscoli sono deboli — e se quella poi fa cilècca: se la manata non la coglie in pieno viso? Non importa : giù, giù! Ecco fatto.

Che se il mio accusatore volesse, come altra volta, sostenere che questi demolitori in realtà sono dei perditempo, che non amano il lavoro utile e proficuo, e volesse desumere ciò dalla comparsa di cotesto triste canzoniere di carcerato, prenderebbe una falsa via per il suo ragionamento.

E sebbene non si dia retta alle prediche, che vengono da certi pulpiti, sappiate, signor sostituto, che io fo’ voti di vedermi tolto da tempi meno sinistri a cotesta arte di scribacchiatore, e riserbato alla sorte di appendere ad un fico la mia toga, su cui — bontà vostra — trovaste tanto a ridire, ma di vederci accanto, penzolone, anche... la vostra, così ben gallonata e civettuola. Vorrei farvi comprendere, ch’io mi sentirò più onorato e felice di rivoltolare la terra con la vanga e con l’ aratro, che non starmene a scander metri, ed a pescare rime, e a dire ed a sentir dire delle corbellerie per i tribunali. Noi, demolitori, l’aspettiamo a gloria quel santo giorno dei colpi di marra sulle terre non redente ancora dalla miseria, dalla ignoranza, e dalla oppressione.

Vedrete che belle strofe luminose — più fiammeggianti assai dei nostri versi e delle vostre requisitorie — sapremo scrivere per i campi e nelle officine, e per le scuole, ove tutti i figli giovinetti dell’ uomo cresceranno fratelli nella eguaglianza vera e nella libertà.

A rivederci dunque al giorno benedetto, in cui gli uomini non sapranno più che farsi delle mie ribellioni versificate nè delle vostre sfuriate sentimentali e patriottiche, nè delle gazzette equivoche, che riportano la vostra prosa, pueah ! ponzata e scritta a casa — coll’aria di darla a bere come improvvisata all’udienza — e tagliano via dalle prezzolate colonne le sacre ragioni della difesa. Grazie anche a voi, o crocesignati filibustieri della penna, costà nella gentile città marinara della mia dolce Toscana; grazie per quel po’ di male che mi avete fatto. Almeno ho imparato a conoscervi.

Che poi al signor sostituto Procuratore del re, padrino al fonte... giudiziario del ricordato processo, creaturina tisicuccia così laboriosamente partorita dalle felice fantasia di un Bancheri, ci venga a contare, piagnucolando, le miserie della borghesia, che non ha, secondo lui, da pagare la risolatura delle scarpe, noi potremo, anche menargliela buona. Chè può darsi, poveraccio, con la vista, come ha, oscurata dalle lenta fiscali, non sia forse capace di scernere bene borghesia grassa, oziosa, divoratrice dei prodotti del lavoro altrui, e borghesia magra, oppressa, salariata, che si logora, stentando, nelle fatiche desolanti del basso impieg o e nel ministerio laboriosissimo dell’insegnamento elementare. La quale, in fondo, non è che proletariato, e trovasi già con noi nelle occulte aspirazioni, e sarà apertamente fra noi, domani, al momento della lotta.

Ma che ci venga questo signore, che il suo dio lo benedica, ad insegnare, a stomaco pieno, la religione del sacrificio e del lavoro; a noi, che per cansare le sofferenze di persecuzioni poliziesche e giudiziarie non scegliemmo mai la facile via delle abiure, e nè anche il comodo viottolo delle piccole transazioni; che rida, col brutto riso del carceriere dondolante le chiavi della segreta, rida sul viso di questi poveri ragazzi, perchè qualcuno di loro esercita l’orribile mestiere... di calzolaio, che venga a gabellare, i miei ex-compagni di prigionia come gentaglia senza arte nè parte, come mascalzoni scansafatiche; via, tutto ciò è supremamente crudele. Non l’arte di maestro Raffaele che se ne va di cantina in cantina -come canticchiaste allora possono permettersi questi faziosi, cotesti violenti filosofi della piazza, che amano e sperano una giustizia un po’ meno ingiusta di quella che voi amministrate. No. Pur troppo.

Li sanno le macchine, i campi, le gomene e le stive delle navi, i lunghi remi delle barche di risico, gli argani del porto rumoroso questi santi sudori di plebe, che ha il diritto, per dio, di discutere, al meno, sul pane, che le si ruba giorno per giorno, ipocritamente. Lo sa l’ordegno insanguinato — non è retorica signor Procuratore — che sfracellò l’altr’ieri sul lavoro, nel

Cantiere navale di Livorno, quella monumentale figura di lavoratore gagliardo e buono, che fu il nostro Angiolo Magnozzi, un altro dei facinorosi che, secondo voi, non hanno voglia di lavorare.

Mi par di vederlo, come fosse ora, quando nella domenica, la sua faccia bruna e ardimentosa compariva allo sportello della celletta in faccia alla mia, mentre il frate biascicava la messa nella cappella dei Domenicani. Povero compagno nostro, vorrei vedere, come ci pensa questa gente timorata di dio, ed amante dell’ordine, alla tua famiglia; ora che, da buon ribelle, hai schiaffeggiato col martirio la ironia della canzonetta napoletana, stonicchiata, come un buon argomento di accusa, dal signor sostituto. Ricordo ancora il giorno, in cui i tuoi polsi enormi, nelle manette troppo anguste per te, sanguinavano tanto e tanto, che un brigadiere dei carabinieri impietosito volle rallentarne la vite. E tu ridevi di quelle nobili lividure. Non fu gran sangue, quello, pare, perchè cotesta gente imparasse a rispettare, almeno, la onestà dei tuoi principi. Ce ne voleva altro assai; dovevi versarlo fino all’ultima goccia; e, dopo tutto questo, chi pensa solo agli interessi della sua bottega non intenderà mai il significato profondo di un uomo stritolato da una macchina. Le manette ed il carcere — per te — non furono che il prologo triste; l’epilogo fu ben più sconsolato. Ma io avrei avuto caro, che sulla tua bara gli amici avessero potuto deporre le manette, che ti lacerarono i polsi, quel giorno. L’eloquenza loro su quella cassa di carni spezzate sarebbe stata alta e gentile più di ogni solenne parola di saluto al ribelle ed alla vittima. Addio, povere carni; giù il cappello, signor sostituto procuratore del re!

Lasciamo che svampi e si asciughi questa goccia di sangue sulla pagina bianca, e rispondetemi apertamente, o miei lettori: il signor Questore di Livorno, gli accusatori ed i giudici che mi costrinsero, non colpevole, agli ozii istigatori delle prigioni, non sono anch’essi, in fondo, i complici necessari nella perpetrazione di cotesto mio mesto canzoniere ?

Cuique ...
O tu, che leggi i miei poveri versi,
cercando in essi il blando idillio, e speri
scovrir la traccia di amori sommersi
tra i miei pensieri,

O tenti intravedere, oltre i segreti
affetti, i fili d’una treccia bionda,
o una pupilla, che a l’amante lieti
raggi profonda;

Senti ! il profilo delle donne amate
io non lo vendo in pallidi elzeviri,
nè so fondere in rime zuccherate
i miei sospiri.

Ma sdegni alteri — e non per mio diletto come
strali ribelli al mondo io vibro;
lettor mio buono, acconciati al soggetto,
o getta il libro.

Milano, 1891.

.....

Ma se de le miserie umane il pianto
o lettor mio, comprendi, e senti, e imprechi,
e scerner vuoi, sotto l’altiero manto,
d’una cadente età li affetti biechi,
-lugubre fioritura d’un inverno
squassato dal furor de le bufere,
pria che tornino a vita in ritmo alterno
i lieti fiori de le primavere vieni,
e vedrai. Son poveri brandelli
di cuore e di cervello, che ho gittati,
come una sfida, a’ rosei menestrelli
da’ capei ricciolini e incipriati.
Gittati là nei vortici del mondo,
come un seme di balda ribellione,
germe non corruttibile, e fecondo;
sacrato al sole de la redenzione
fidentemente. Son battaglie meste,
son pensieri e baldanze giovanili,
inni e canzoni da la rozza veste,
e schiaffi, senza guanto, in faccia ai vili.
1891.

L’ ARRESTO

Dormivo. Per la tacita
notte scendeano sogni luminosi
su li stanchi occhi miei;
e mia madre vegliava — trepidante
come un dì, ne la dolce puerizia,
allor che i miei riposi
scorrean sereni sovra il sen di lei.
D’un subito, nel sonno, mi percosse
uno strano rumore
di fondo al corridore;
poi tre colpi vibrati e violenti
tra mormorii confusi ancor
gli occhi avea chiusi sentii
picchiare a l’uscio lenti, lenti.
Di sbalzo mi destai,
e vidi, presso a me, la madre mia
-« Ecco la polizia,
Pietro ... » mi disse — pallida, atterrita.

Io, mesto, mi levai,
e già mi stava a lato un ispettore,
che mostrommi il mandato,
e, munito di ciarpa tricolore,
mi dichiarò in arresto.
Mia madre in pianti amari si struggea;
cupi, muti, impassibili,
come spettri d’un incubo funesto,
sei poliziotti il letto abbandonato
aveano circondato.
Come un leone il mio babbo fremea,
presso la porta, senza una parola.
Passando — io l’abbracciai;
poi la mamma baciai,
(essa, da l’uscio, mi stendea le braccia.)
Tra le guardie -levando alto la faccia
la mia casa lasciai.

Sotto il cielo piovoso
si allungava Livorno addormentata,
e il gran viale de le tamerici
fuggìa per la tenèbra sconsolata.
Da le quete pendici
di Montenero, il venticel notturno
si slanciava nel mare
grigio, brullo, infinito,
e taciturno come un lago morto.
Lunge, su li orizzonti, la Meloria
parea, nel gran silenzio, meditare,
cupa e feroce ne le sue memorie.
I navigli del porto
ne la calma sinistra e sepolcrale
figgean l’occhio sanguigno e pauroso.

In alto — fiero e vigile —
ravvolto di mistero e di caligine,
il capo radioso —
torreggiando — s’ergea del gran fanale.
Muti c’incamminammo.
e, su da la finestra,
la madre mia — piangendo — mi chiamava.
Io volsi altrove il viso;
con cinico sorriso
un pingue poliziotto mi guardava.
Procedevamo, muti,
lungo le vie deserte e silenziose.
Di tratto in tratto qualche mattiniero
e raro viandante,
qualche cane errante
passavano, gettando sospettose
occhiate sopra questo
gruppo triste e severo.
Poi, con atti di tèma e di paura,
rasentando le mura,
scivolavan nel buio.
Sotto una pioggerella fitta, assidua —
come spinti dal soffio sciroccale
giungemmo a la Questura.
Era — sembra — importante la cattura,
giacchè... ne rimpinzarono un verbale;
e, a mezzo del telefono
il questore chiamarono.
Poi, per viuzze strette e solitarie
mi trassero a le carceri.

L’antico chiostro freddo, muto, plumbeo,
ricetto di rimorsi e di sventura,
aspettante, sorgea ne l’aria scura.
Entrammo. E l’uscio si richiuse, lugubre
come la pietra d’una sepoltura.

Livorno, dal Carcere dei Domenicani
13 Maggio 1890.


I DOMENICANI

Triste, come la immagine del pianto,
solenne al pari del dolore umano,
su te la strofe alata io scaglio invano,
e disciolgo l’amara onda del canto.
Tu resti, e, dal passato, come un santo
inquisitor, su noi stendi la mano,
su noi ribelli, che al tuo dogma insano
d’una sfida mortal gittammo il guanto.
In te spira, opprimente, la fratesca
moccolaia del vecchio monastero,
che i pederasti e le beghine adesca.
O ravvolto di lutti e di mistero
io t’odio, e a l’aura ossigenata e fresca
del mio bel golfo slanciasi il pensiero.

Carcere dei Domenicani, 15 Maggio.


LA SVEGLIA —

Mentre il carcere ancor, triste, riposa
ne l’oblivione, che ogni duol cancella,
impertinente, stridula, ed uggiosa,
squilla, giù dal cortil, la campanella.
Scende una luce fioca e dubitosa
tra i ferramenti de la finestrella,
e insiem col dì, fedele e tormentosa,
torna la nostalgìa ne la mia cella.
Pei corridori, fino ad or sì muti,
si diffonde, confuso un rumorìo
su questo picciol mondo, che si desta.
Tra le celle s’incrociano i saluti,
in un lieto e bizzarro scoppiettio,
quasi risveglio di sepolcri in festa.
17 Magggio.

L’ARIA —

Quando il pensiero desioso vola
dal chiuso aere dolente a’ cieli aperti,
e in fantasie beate dei sofferti
dolori, vaneggiando, si consola,
suona, scherno a l’orecchio, una parola:
- « Aria. » I reclusi in anditi coperti,
da cui la luce, timida, s’invola,
tentano il moto de le membra inerti.
E pur, l’attendo ognor con esultanza
quest’ora, che la mia vita accomuna
con altri vivi ne la stessa stanza.
E questi, che ogni dì la sorte aduna
meco, a virtù conforto, ed amo, e alcuna
pietà rafforza me ne la speranza.
18 Magggio.

LA VISITA —

Uno stridore acuto e singolare,
a note ora vivaci ad or profonde,
intorno, balzellando, si diffonde,
come da tizzo verde su l’alare.
S’appressa, e un ferro sopra le rotonde
sbarre vicine vedo saltellare...
Una ironia sottil di mille amare
irrisïoni quello strido effonde,
Anche sopra i miei ferri, ogni mattina,
questa diana batte ed ogni sera;
ma per le sbarre, eterna peregrina,
va la mente dai colli a la riviera,
su pei monti e pei mari s’incammina,
e beve i raggi de la primavera.
19 Maggio

IL PARLATORIO —

L’altr’ieri al parlatorio mi han chiamato,
e in fondo al petto mi balzava il core,
e, pieno di speranza e di timore,
presso la grata, immobile, ho aspettato.
Quando, soave imagin di dolore,
il viso di mia madre s’è affacciato,
e, senza una parola, m’ha guardato
con l’espressione d’un immenso amore.
Ed io uomini e leggi ho maledetto,
che i baci de la mamma hanno conteso
e le carezze al povero reietto.
E in fondo al seno, d’alto sdegno acceso,
infuriava, per filiale affetto,
a ribellione il core vilipeso.
20 Maggio.

SANTA GIULIA — A MIA MADRE

Oh, se per nuovo obietto
Un dì t’affanna giovenil desìo
Ti risovvenga del materno affetto!
Nessun mai t’amerà dell’amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
Ricercherai la madre, e in queste braccia
Asconderai la faccia:
Nel sen, che mai non cangia, avrai riposo.
G. GIUSTI, Affetti d’una madre.
O mamma, quando ne l’angusta cella
giunge un bacio di sole,
o il mite raggio di raminga stella
batte alle finestruole,
o le tragiche squille de la sera
piangon ne l’aura mesta,
sovra una sbarra ruvida e severa
io reclino la testa.
E penso il tempo de le tue carezze
letificanti i sogni
de la puerizia, e d’ingenue dolcezze
i desiri e i bisogni.

E penso li orizzonti sconfinati
de l’isola selvaggia,
i carmi eterni dal mar sussurrati
tra i sassi della spiaggia,
e il canto che dal tuo labbro scendea
sul mio capo infantile,
quando su me la speme tua ridea,
e sui campi l’aprile.
Tu m’insegnavi una prece modesta
alla madonna, ai santi,
per supplicare i venti e la tempesta
benigni a’ naviganti.
Quando passan sul mar de la mia vita
i venti e la bufera,
ormai del cuor la fede illanguidita
disdegna la preghiera.
A la madonna e ai santi, o madre mia,
io non ci credo più,
ma una nova e solenne poesia
ride a la mia virtù.
Nel turbinìo de le battaglie umane
oggi sono un soldato;
a un ideale, e non a fòle insane,
la mia fede ho giurato.
Dei vecchi santi un sol ne’ voli audaci
del mio pensier s’indìa,
credo sempre a l’amore, ed a’ tuoi baci
soavi, o madre mia.

Sono solo, e sul capo mio s’addensa
l’ira umana, e l’oltraggio
vile, che non combatte, e che non pensa,
e che non ha miraggio.
Dicon ch’io son cattivo, e faccio odiare!,..
dì! non è falso questo?
Baciami, o mamma, e non ti vergognare;
io sono sempre onesto.
21 Maggio.

LA MESSA —

Nei dì festivi, mentre la nasale
voce del prete brontola il latino,
da le bocchette aperte esce, cordiale,
l’augurio tra i percossi dal destino.
E mentre ancor si compie la mortale
commedia, a onore de l’agnel divino,
parlano i gesti una convenzionale
favella sotto il naso al secondino.
Il carcer sembra un sepolcreto immenso,
vivente per le bare scoperchiate,
donde sbucano i morti a conversare.
Salgono in aria i globi de l’incenso,
parlano le bocchette spalancate,
e Cristo muor, di novo, su l’altare.
22 Maggio

LA FRUGA —

Di tratto in tratto, quando in ciel l’aurora
le plaghe benedette d’oriente
di luminosa porpora incolora,
ne la cella romita, ecco, repente,
di guardiani uno stuol, che lungamente
per ogni verso la stanzetta esplora....
Poi sul recluso, minuziosamente
rifruga, trattol de la cella fuora.
Un giorno un bocconcino di matita
m’hanno trovato in dosso — era la mia
buona compagna, a cui l’inaridita
vena fidavo de la poesia....
fin quella gioia m’è stata rapita,
fin quel conforto mi han portato via!
24 Maggio.

LA CELLA (Numero 32)

Piccola, bianca è la celletta mia,
nido di cenobiti e di reietti ;
dal mondo giunge affievolita e pia
l’eco gioconda di vivaci affetti.
Dei ricordi la mesta compagnia
il cor mi punge con amari detti;
fervono ognora ne la fantasia
ire mal dome e sogni maledetti.
Due cocci, un pagliericcio, un’inferriata...
di faccia le muraglie d’una chiesa,
e un’aria greve di malinconia!
Discende per la notte ampia e stellata
sul duolo, acerbo per la nova offesa,
del mondo la perenne nostalgìa.
26 Maggio.

IL TRANSITO —

Nel sanguigno baglior crepuscolare
sfilano per la chiostra — ombre silenti,
e solo, a quando a quando, le stridenti
catene insieme s’odono cozzare.
Mesti, cupi, abbattuti da le amare
memorie, forte sovra il cor frangenti,
a due a due, incedon lenti lenti,
e, come spettri, sembran dileguare.
Naufraghi ognor sospinti dal maroso
d’una giustizia, che il perdono ignora,
tentan coi prieghi, invan, l’ira selvaggia.
Senza più pace e senza più riposo,
più non ride a quei naufraghi l’aurora,
né la speranza d’una amica piaggia.
27 Maggio.

IL SILENZIO —

Già la notte sul carcere è calata,
scura come il mantello de la morte,
e dei pensieri, che tempestan forte,
torna, in ridda, la tetra cavalcata.
Pare che, lieta, irrida a la mia sorte,
giù da la strada, una mandolinata ...
Sotto la immensa oscurità stellata
sembran le cose ne la calma assorte.
Ma la campana del silenzio squilla,
come il lamento d’una moribonda,
ne la nottata lugubre e tranquilla.
In seno a la quiete alta e profonda
il mio bel sogno luminoso brilla,
e di pace lo spirito m’inonda.
29 Maggio.

PENSIERO RIBELLE —

O ribelle pensier de la mia mente,
avanti, avanti, e combattiamo ancor!
Tu sei la mia bandiera, ed il fulgente
raggio di una speranza, che non muor.
Io era un bimbo gaio e ricciutello,
quando balzasti sopra il mio sentier,
innanzi al supplicar d’un orfanello,
che la mano stendeva al passeggier.
Poi t’incontrai ne’ mesti casolari,
ov’entra il freddo, ed ove manca il pan;
ti ritrovai su’ campicelli avari,
ove il colono s’affatica invan.
Ne le fumose e torride officine
ti vidi, tra le macchine, cennar,
e, da le tempestose onde marine,
su le ciurme, terribile, balzar.

Terribile di sdegni e di giustizia,
fiero arcangelo cinto di splendor,
te vidi ovunque un segno di nequizia
risusciti un singulto di dolor.
Ed ora, in questa cella, a me dinanti
sorgi, o vessillo mio santo ed altier;
o mio pensiero, avanti, avanti, avanti !...
ecco il tuo buono e forte cavalier.
31 Maggio.

UXORICIDIO —

Da la terra di Francia era venuto
povero e mite, e qui trovò la morte.
In una bella, un dì, s’era imbattuto,
e fu preso d’amor per lei sì forte,
che la bionda fanciulla vagheggiata
avea fidentemente disposata.
Ma quella donna, sconoscente e rìa,
l’amore avea mentito e il giuramento,
e per brutali amplessi lo tradìa,
senza un rimorso e senza un pentimento.
Ella a gli sdegni suoi cinica irrise,
ed ei sui lini candidi la uccise.
Maggio 90.

SUICIDIO —

Ed or languìa, da lungo, imprigionato
in questa cella, ov’io giaccio dolente,
ieri s’è co’ i zolfini avvelenato,
e l’han raccolto livido e morente.
Ed oggi è morto. -Il posto abbandonato
assegnarono a me tacitamente,
e su questo giaciglio, ov’ei morìa,
riddan li spettri de la fantasia.
E parmi, quando la tenèbra inonda
questa celletta taciturna e mesta,
sentir fra ‘l sonno l’adultera bionda
sopra il guanciale mio posar la testa;
e sporger del mio letto su la sponda
l’anca procacemente disonesta,
ed il marito amante, morto or ora,
tra i novi amplessi strangolarla ancora.
Maggio 90.

Je vais, triste et joyeux, versant
Sur ma lyre, à travers l’orage,
Des fleurs et des gouttes de sang.
Des larmes d’amour et de rage.
François Coppée, Poemes Magyars

O mio pensier tenace,
Dimmi perchè non cessi di lottar?
Perchè mi chiama il tuo grido pugnace
ancora a battagliar?
Cessiam, vecchio pensiero, di pugnar.
Io son malato e stanco,
e tu mi chiami, e mi tormenti ancor.
Tu mi sei sempre, ne le notti, a fianco,
a martellarmi il cor.
Perchè mi chiami, e mi tormenti ognor?
Tutto da me tu avesti,
e canti, ed opre, e core, e gioventù,
ai baci di mia madre or mi togliesti,
và, non t’ascolto più;
è spenta nel mio seno ogni virtù !

Ah no, torna, o pensiero
ribelle, torna a palpitare in me,
e torneran, sul carme battagliero,
il coraggio e la fè,
e un dì, non vinto, morirò con te.
Livorno, Carcere dei Domenicani
1 Giugno 90.

NOSTALGIA — Passan le nubi nere, portate via dal vento, su le mura severe de l’antico convento passan le nubi nere. Dietro un vecchio forzato cigola la catena triste, come il suo fato; stride come una iena dietro al vecchio forzato. Come passero stanco una mesta canzone su pel cortile bianco vola de la prigione, come passero stanco. É la pace del chiostro, solenne accidiosa, sovra l’ibrido mostro; sovra il cor, che non posa, è la pace del chiostro.

Ci son le inferrïate tra i desideri e il mondo; tra le braccia levate ed il cielo profondo ci son le inferrïate. Ma il pensiero va via, sprezzando la muraglia; l’afflitto corpo espìa la perduta battaglia, ma il pensiero va via. E fugge, e fugge, e fugge via per plaghe lucenti. De la brama, che rugge, assopisce i tormenti, e fugge, e fugge, e fugge. 3 Giugno

LIBERTAS — Sentirais-je quelque ingenue Velleité, D’aimer cette belle inconnue. La Liberté? DE MUSSET. Tu mi baciasti in fronte giovinetto, e mi dicesti: — « Và, io son la libertà, ed infiammo il tuo petto! « E tu, baldo e gentil, combatterai i prepotenti, i fiacchi, i superbi, i vigliacchi; e nel mio santo nome vincerai. » Io nel tuo santo nome ho combattuto contro gli scherni e il fato ; incorrotto soldato, e per te son caduto. Ma tu non cadi, o gran madre immortale, e brilla il tuo splendore del popolo nel core e ne l’azzurro ciel de l’ideale.

Ma tu non muori. A te s’ergon le braccia dal lavoro fiaccate e le plebi affamate levan la mesta faccia. E nel tuo nome, per ognun che cade, a mille, tra i volenti, sorgono i combattenti, squillano gl’inni, e folgoran le spade. E tu sorridi, luminosa e bella, qual da plaghe lontane su le vicende umane, imperitura stella. Or, su l’ombria di questa cella muta, splendi dai cieli in seno, mentre, forte e sereno, il tuo soldato, o madre, ti saluta. 5 Giugno

LEITMOTIVE — D’una nostalgica mesta cadenza salgon ne l’aura le note stanche al pari d’ un sospir, e ne la pigra e greve sonnolenza de la carcere sembrano vanir. È una dolcissima marinaresca, tra i dolci fremiti, forse, sbocciata da l’Jonio mar, ove tra i baci de la brezza fresca il primo sole vidi scintillar. Forse, quel misero, che la sospira, ripensa i liberi clivi d’un golfo ed un aperto ciel, e si dibatte ne la orrenda spira d’un fato inesorabile e crudel.

Ma quelle flebili e stanche note sul mio discendono addormentato e desïoso cor, a suscitare imagini remote, e sopite memorie di dolor. 7 Giugno.

PASSEROTTI — Oiseaux fixés sur cette plage, Nous portons envie à leur sort. Déjà plus d’un sombre nuage S’élève et gronde au fond du nord. Heureux qui sur une aile agile Peut s’éloigner quelques instants ! BERANGER, Les Oiseaux. « — Donde venite sì vispi e beati, o dolci amici, sul far del mattino? A la grondaia vi scorgo affacciati, o pur da i tegoli a far capolino. Di me, o piccini, più voi fortunati, trillate al sole, ne l’agil cammino, e mentr’io languo, voi, garruli alati, il verde attende tripudio dei prati. » Questa mattina li ho visti calare su la finestra dai tetti di faccia, e, da padroni, là sù svolazzare irrequïeti, di briciole in traccia. Fieri impettiti li ho visti scappare, quando, festante, distesi le braccia; ma poi, con gioia, rividi le care testine a un’altra finestra occhieggiare.

« — O refrattarii, voi, soli qui siete dei cieli aperti la imagin serena, di queste mura ne l’alta quiete l’audace istinto su le ali vi mena, e de le vostri canzoni più liete in sul mattino la carcere è piena. D’aria, di luce, di cantici ho sete, su via, d’amore gl’idillj intessete. » Ed io, sospiro. Ma voi mi guardate con quelli occhietti sì vispi e sì belli; forse un pochino voi pure mi amate? io v’amo, ed amo gli arditi stornelli, che, saltellando, tra voi bisbigliate; v’amo, o dei tetti gentili ribelli. Se voi non foste, che tristi giornate!... o piccolini, tornate, tornate ! 10 Giugno.

CAMPANE — Da mane a sera su la mia prigione è un eterno e molesto scampanio; e ad ogni suono, una maledizione buscansi il campanaro ed il suo dio. Nei dì festivi, poi, la ribellione divampa con allegro scoppiettìo. E son frizzi ed apostrofi salaci contro il vecchio e rubesto campanile, che al tempio chiama i creduli seguaci. E sfavilla nei detti la sottile toscana arguzia, e scoccano i vivaci motteggi a la giudea fòla servile. Ma — piccina, piccosa e impertinente fra le cinque campane, la minore con la sua voce garrula e stridente, salta, squilla, tempesta a tutte l’ore. E quando le altre tacciono, repente, essa, sciocca, raddoppia il suo furore. 14 Giugno.

PERCHE’? ... — Perchè migrar le dolci stelle sul cieco mondo, e il viaggio errabondo sfavilla in fondo al ciel? Sopra le vette altere perchè la imperiale aquila batte l’ale, perchè vola l’augel ? Perchè fremono i venti da le pendici ai boschi, e la tempesta i foschi veli addensando va? L’augel, le stelle, i venti, l’aquila e la tempesta niuna catena infesta, niun toglie a libertà. 16 Giugno

ODIO — Ogni strofe alta animosa Vola via senza guanti, Ogni strofe è uno schiaffo a qualche cosa, Avanti, avanti, avanti! CARDUCCI Va, ribelle pensiero, in mezzo agli uomini e sciogli il triste canto, il singhiozzo feral, che non ha lacrime, e che non vuol rimpianto. Tu nel cospetto del morente secolo canta la benedetta strofa de l’odio; sarai tu l’assiduo tarlo di mia vendetta. Maledetta la patria! De le misere plebi madrigna infame, bollata in fronte da lo stigma tragico dei morenti di fame. E maledetto iddio! Bieca fantasima di menti paurose, puntello antico di vecchie tirannidi da la marèa corrose,

E maledetta la virtù ! l’ipocrita iridiscente vesta, onde si cela la viltà magnanima de la canaglia onesta. Maledetto l’amore, che nei fulgidi voli del mio pensiero vindice vidi, e dei redenti popoli, immortal cavaliero ! Sia maledetta la mia fè! L’indomita speme ne l’avvenire; maledette del cerebro, che palpita, l’entusiastiche ire! Maledetto chi opprime, e su l’anonima folla sospinge il piede! maledetto chi sente, e geme, e lacrima ! maledetto chi crede! Maledetti gli oppressi! I turpi, i trepidi da la dimessa voce, che senza una bestemmia e un urlo strisciano, vili, sotto la croce ! Sotto la croce eterna del martirio, proni a un idol già morto, sbattuti dal furor de la miseria senza speme o conforto ! O mondo! da l’erèmo solitario, in cui giaccio obliato, ed ove mi hanno i tuoi marosi torbidi, incolpevol, gittato,

su te mi levo, e strappo la tua maschera, o lenòne impudico, e mentre l’odio tuo final te lacera, io, vil! ti maledico. 19 Giugno.

AFA — Ne le cellette candide entra la bionda estate, e il sole scocca torridi baci a le inferrïate. Nel cortile una rondine librasi, stanca, a volo, sul pagliericcio ruvido dorme un bigio lenzuolo, non io: tra caldi rivoli di stillante sudore, tra le mosche, che ronzano . sotto il cocente ardore, penso : — « Chi sa qual placido sonno dentro la fossa, e che sóave fremito di frescura ne le ossa,

Sotto l’arche marmoree, tra viali giulivi, i morti, forse, dormono assai meglio de’ vivi ». Fra gl’indistinti fremiti de l’atmosfera ardente, lunge, s’odon le dodici battere lente lente. 27 Giugno.

FUGA — Dice il mare alla notte : — paurosa Ombra, che invadi i miei torbidi baratri, Che chiedi, o paurosa ombra, da me? Se nel tuo cavo sen dorme ogni cosa, Perchè più fiero a te sorge il mio gemito? Questo perpetuo fluttuar perchè ? M. RAPISARDI, Poesie Religiose. Sul carcer tetro scende la sera, e sui pensieri tedio mortal, battono il cielo con l’ala nera i nuvoloni del temporal. Giù ne la chiostra, d’una lanterna si spande, a torno l’incerto albor, splende e s’oscura con vece alterna, poi, sotto il vento, sfavilla e muor. Lontan lontano la gigantesca - nel buio — freme voce del mar ; passan li sbuffi dell’aria fresca, e s’ode il tuono rumoreggiar.

« O fuggitivi baci del vento, che via pel cielo spiccate il vol, con voi, ne l’aria, rapir mi sento, con voi trasmigro da questo suol. « Da questo suol dove a brandelli lasciai l’onesto core e il pensier, con voi, raminghi spirti ribelli, voglio partire sul mio corsier. « Ed è il corsiero la mente mia, che abborre i vili lacci del fren, pari al fatato cocchio d’Elia, ratto e superbo come il balen. « Di là dai monti, di là dai mari, galopperemo la notte e il dì, lunge dal mondo, lunge a li avari lidi, ove il baldo mio cor morì. «  Senza speranze, senza memorie con la tempesta vïaggerem ; come fantasmi di vecchie storie nella tenèbra dileguerem. « È sopra i nembi la nostra tomba, oltre le nubi, fra terra e ciel, dove il ribelle tuono rimbomba, e splende il sole sul vasto avel. » 30 Giugno.

SOGNO — Doppia è la vita. Il sogno ha il proprio mondo. . . . . . . . . . . . Immenso regno Di fantastici veri. I sogni anch’essi Svolgendosi, han respiro, affetti. riso. Pianto ! BYRON, Un Sogno. Correa la nave sotto il plumbeo cielo con le ampie vele squarciate dal vento, e l’urlo immenso d’un oceano ignoto salìa ne l’aria. Su l’albero maestro una bandiera - rossa tra lembi neri — sventolava sanguigna sotto i lampi, e gloriosa sfidante il nembo. La prora, flagellata dai marosi, si profondava ne la spuma bianca, e tendea — come l’ala de l’alcione a la riviera.

Ed io figgea gli sguardi ne la bruma del mar, solenne sotto la tempesta, e intravedevo i lidi desiati su l’orizzonte. Giungemmo. Su le rive era un tripudio di fanciulle, di bimbi, e di vegliardi fioritura gentile in una mite gloria di sole. Tutto un popolo libero e fecondo brulica innanzi al mare, e l’uragano fugge al cospetto de le liete spiaggie remotamente. Di opifici, di scuole, d’Atenei per le ampie vie si leva la superba mole, quasi a tutela de le quete casette bianche. Ne la gran pace l’inno del lavoro stringe in sue spire gli operosi, e ascende, e ascende, e ascende. C’è per tutti il sole, per tutti il pane. Son felici le spose e miti i lacci del core, e salde di virtù le tempre, fertili i campi, li uomini fratelli, legge : l’amore. Non servi o parassiti, non sicari del pensiero — la luce ne le menti, nei muscoli la forza — in fondo al core la poesia.

Sui campi nasce — presso a’ fiori — il pane e sale il fumo de la vaporiera; nei tempi antichi -sopra i vecchi eéi - l’arte risplende. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ahi, la dolce visione è dileguata nel pio raggio di sole, che m’investe ; mentre echeggia la diana del mattino per la prigione. Carcere dei Domenicani , 15 Luglio.

INCUBO — Forse io son morto da un pezzo; Forme d’ombre audaci frotte Son le idee, che pel mio capo Van ronzando ne la notte. . . . . . . . . . . . . . . E il poeta la. mattina Con la gelida sua mano A descrivere si prova De le pazze ombre il baccano. ENRICO HEINE, Zum « Lazarus ». Dormivo — e mi pareva, che l’occhio, sbarrato nel sogno, vedesse cose strane pe ‘l buio d’un gorgo infinito. Eran torme affannose di spettri cacciati dal turbo, come dal soffio enorme d’un’ira, d’un odio implacati. La fila interminata, fuggiva, fuggiva, fuggiva nel buio pauroso — fuggiva — torrente perenne. Per le purpuree vesti pareva fiumana di sangue. Le catene, strisciando, urlavano come tempesta. Gemiti lunghi e fiochi salivan ne l’alta tenèbra grida, pianti, singulti di bimbi, di vecchi, di donne. I fuggenti, a le grida ben note, stendevan le braccia, come a l’irraggiamento supremo d’un mondo perduto. Ma il turbo infurïava, spignendo li spirti dolenti, a frotte sconsolate, giù giù per la china fatale.

Mi pareva che il tempo, già senza misura remoto, sopra l’aperta abisso vegliasse la tragica fuga. Non so quale fermento di lunghe vendette feroci, con lievito sinistro bolliva, bolliva ne l’aria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ma già, più non dormivo, e sempre le orecchie feriva, rude e cupo, il rimbombo di ceppi e catene striscianti. La realtà men triste non era de l’incubo atroce, allor che — per le rozze ferriate rampando — mirai. Passava da ‘l cortile — per altre galere sospinta la ciurma dei forzati. Passavano come fantasmi. Era il transito mesto che de la sognata bufera risuscitava l’eco non anche, nel core, sopita. Livorno, Carcere dei Domenicani, 7 Agosto 90.

MANETTE — A ENRICO FERRI Enrico, allor che il polso esil mi avvinsero coi rozzi ferri, e innanzi ai giudici mi trassero, in quel morso sentii la rabbia tragica che i roghi, alto, incendea presso l’altar degl’idoli. Sentii, sotto la pelle tesa, il fremito de l’idea che non piega d’un ferro a la tirannide; sentii la sfida al picconiero assiduo, al pensier cavaliere gittata da le tenebre. E dal caos degli evi la vertigine dei patiboli enormi, de le serene vittime pareami del presente il novo irridere d’inquisitori e sgherri adiposo sinedrio. Ahi, come è vile il piccioletto secolo . cui non vampe solenni di ferocia rischiarano; ma tirannia piccina d’ebri giullari preme, strusciante a torno di libertà la clamide.

Ahi, morti son li alteri iddii de l’Ellade offrenti il feral nappo a la virtù di Socrate, spenti gl’incendi immani, onde guizzavano a l’avvenir le idee, con le anime dei martiri. Non siam che una genìa sozza d’ipocriti noi che a l’età bugiarda tôr, non sappiam la maschera, noi, cui la legge sol da un boia libera, ed i nostri pensieri ancor mozza e decapita. O nei vecchi domini come rapida sui ribelli scendea l’era de le mannaie! Riscintillava il sangue in caldi rivoli, e l’utopia splendea nel cospetto del popolo. Questi mercanti da l’aspetto cinico la lucente bipenne fra le doghe obliarono; schivi a le pugne audaci, a l’armi splendide, solo a colpi di spillo questi mercanti uccidono. O per la libertà caduti militi non per questo la vita gettaste in faccia ai trepidi; non per questo, o d’amor solenni apostoli, vi sanguinar le membra per la tortura livide! Non perchè l’èra dei supplicii eroi generasse cotesto ermafrodito genere di sbirresca impotenza e di magnanime viltà — questa ciurmaglia di panciuti carnefici. Addenti pure il ferro le mie povere carni, vi incida il solco de l’odio reo degli uomini; la carne sola è vostra, o miserabili, ma l’idea, che m’infiamma, nessun ferro può avvincere.

In essa, o Enrico, è il mio cielo più fulgido, essa è la tersa lama, che umani odii non frangono; che meco, dopo i tedi ansii del carcere, dei miseri al servigio ognor vedrai combattere. Carcere dei Domenicani, 15 Agosto.

TRISTE VIAGGIO — Quanta letizia Ravviva in mente, Quella marmorea Torre pendente, Se, rivedendola Molt’anni appresso, Puoi compiacendoti Dire a te stesso: Non ho piegato Nè pencolato. G. GIUSTI, Le memorie di Pisa. Il treno, ne la scialba luce, correva celere, già inargentava l’alba l’erbe dei prati roridi. Le piane io vedea che, scolaro, percorrere ogni mattina solea, piena di sogni l’anima. O compagni obliosi dei belli anni miei giovini - sin che il mio cor non posi ne la pace del tumolo

io non saprò scordare . gli affetti alti ed i sùbiti sdegni, le paci care, gli odi e le ire magnanime. Oggi è triste la via; di voi, festanti e garruli, non sono in compagnia; gendarmi e spie mi scortano. Ma su questi sedili, che i bei sogni cullarono de li anni giovanili, le memorie si assidono. Ecco Pisa serena, cui d’Arno i seni allietano, cui, da nival catena, montagne ardue salutano. Ahi, Pisa, dolce terra di studi e amori pronuba, vedi; quale or mi serra laccio vile, e contamina? Un tempo a le tue notti i miei canti salivano, ed il sonno a’ tuoi dotti di arguti inni rompeano. Anche allora li audaci pensieri a me vietarono; ma di ferro i pugnaci polsi, almen, non avvinsero.

Bella torre pendente, migrando al novo carcere, il captivo dolente non abiura, e non pèncola. Nel reo viaggio il mio pensier non geme, e, libero, batte i suoi cieli. Addio, bella torre marmorea ! Oltre il Serchio mi attende una empia solitudine, su quell’asìl non scende la carità degli uomini. Me, là giù, non adduce desìo d’aria o di grappoli, l’amor non mi conduce de l’ampia Val di Nievole. Nel libro di mia vita, o Lucca, un’altra pagina di mestizia infinita scriveranno i tuoi giudici. Livorno-Lucca. Nel vagone cellulare. 24 Agosto 90.

SAN GIORGIO — Sta la muraglia rigida e severa con le ferriate verso il cielo erette, ride l’azzurro per li aperti vani, e scendon l’aure libere dai monti. Sopra il mio capo romba una feroce tempesta d’opre rudi e sconsolate; ma su’ telai stridenti e su le spole ahi, non splende la gioia del lavoro. Passano lenti gli anni sovra il tetro palagio di sventura, e non sorriso di madre o sposa allieta gli operosi. Di tratto in tratto per li androni oscuri flotta, o, cantando, passa un fanciullino a studiare la via de la galera. Lucca. Penitenziario di S. Giorgio. 25 Agosto 90.

GIUSTIZIA — Al poliziotto emerito, Sig. COMM. F. B. Ah questo, araldi apostoli De l’avvenire, è il vostro fato; e voi Cadrete a merli simili Di vecchia torre, o screpolati eroi. Sì, voi, voi pure attendono Il canile la fogna e la belletta, La cellula ed il lastrico, La paglia o il morso, il cencio o la manetta. A. COSTANZO, Gli eroi della soffitta. Ah, voi non ci credete, panciuti eroi, crocesignati ciuchi, dal cor vile di prete, e da l’usbergo di pensieri eunuchi? Non ci credete a questa superba fede nei destini umani? E su la plebe mesta gittate scherno e fango a piene mani! Non ci credete al santo giorno de l’ira e de la ribellione? Ed insultate il pianto, che attende l’alba de la redenzione!

E a chi combatte, ed ama, e non piega la fronte ai vostri oltraggi, imputate una trama d’ambiziosi e calidi miraggi. E i vili, ed i venduti, e li ambiziosi siete voi. Che vale di sacrifici muti la offerta su l’altar de l’ideale? Che val — per voi — sereni, soffrir la sconsolata prigionia? ... i baldi eroi dei freni sono gli agenti de la polizia. Per voi — pugnar fidenti, senza stipendio, per un’alta idea, e, di raggi lucenti, illuminar la torbida marea; e scender tra i reietti, fra le ondate di fango e di dolore, suscitando nei petti la scintilla de l’odio e de l’amore: odio fiero, implacato, a quanto accoglie d’ingiustizie il mondo, amore sconfinato a l’uomo, al vero, a l’avvenir fecondo; per voi — questa battaglia di principii, di fame e di miseria, è gioco di canaglia, creato per turbar la gente seria.

A quei, che a la tenzone venne di fede e di coraggio armato, « è una speculazione » avete detto, e avete sentenziato. A voi, gente pagata col vil sangue plebeo, par cosa strana la disinteressata opra del core, o non par cosa umana. L’opra di chi non vende a un tanto il mese il braccio ed il cervello non crede, o non comprende, chi sol pensa a la pancia e al suo fardello. Per voi — le mani strette ed il pensiero tra i feroci denti de le patrie manette, son di libere leggi i complimenti. Ma noi ridiamo in faccia ai vostri insulti turpi e bottegai, e su la rosea traccia del pensier nostro il sol non muore mai. Come augello a richiamo, la mente vola al fulgido avvenire; e noi non ci pieghiamo a le paure vostre a le vostr’ ire. Voi un po’ di croce, di laute paghe i rischi affronterete, ma l‘ incorrotta voce nostra vi giungerà da le segrete.

Da le segrete oscure ove languimmo fiduciosi e forti, un dì, liete e sicure, muoveranno le intrepide coorti. E innanzi a voi, tremanti, sorgerà un urlo d’odio e di letizia; « Pe’ i lunghi, amari pianti, vigliacchi, questo è il dì de la giustizia! » Livorno Carcere dei Domenicani, Agosto 1890

INSONNIA — Silenzioso il carcere già s’addormenta ne la notte scura, - sotto le fosche nuvole solenne al pari d’una sepoltura. Vien, da lunge, la garrula voce del mondo, impicciolita e stanca, a morir di mestizia e di languor su la muraglia bianca. Io non dormo; non dormono i miei pensieri nel cervel rovente; e, come spettri, riddano ne li antri paurosi de la mente. Non son queste fantasime i miei rimorsi; non l’alta e severa voce del cor, che brontola una bestemmia, o rugge una preghiera. Se de gli anni miei giovani ripenso il vol, dai sogni de la culla, invano cerco tristizie d’opre, di voglie o di pensieri. Nulla.

Ho troppo amato gli uomini, e questo, forse, è lugubre follìa, forse è delitto credere d’amore ne la candida utopia. Ma queste ombre funeree io le vedo aggirarsi minacciose: vedo strisciar la tenebra in atti strani, e forme paurose. Il rimorso è ne l’aura di questa cella piena di misteri, ove tanti vibrarono foschi ricordi e torbidi pensieri. Ove tante passarono coscienze tempestate dal conflitto sconsolato ed assiduo fra l’orror de la pena e del delitto. Questa è l’onda terribile che batte ancora sopra i vecchi muri; è la ridda fantastica d’ire feroci e di miasmi impuri. O larve, o scheltri, o pallide umane turbe che di qui passaste; o brandelli di popolo, che, forse, l’uomo e un ideale amaste; che per l’aspro viottolo de la miseria — voi tradendo il fato siete caduti, e gli uomini, vili! hanno riso, e non vi han sollevato.

A mucchi vi gittarono, rottami informi — dentro a le galere, al sole almo vi tolsero, e al bacio santo de le primavere. Ombre di miserabili, lasciatemi a l’oblìo dolce e profondo; pace, pace, o colpevoli o sventurati, perdoniamo il mondo. Lucca (S. Giorgio) 10 Settembre 90.


NENIE


I. O rondinelle, che volate a torno, stridendo liete sotto il sol morente, fermate l’ale, quando cade il giorno, presso questo mio carcere dolente. Voglio cantarvi una canzone mesta, che mi frulla da un pezzo ne la testa; una canzon di pianto e di dolore ch’io vo’ cantarvi, quando il giorno muore. È una mesta e sóave cantilena, che, fanciullo, cullava i sonni miei quando splendea l’ illusion serena de l’orco, de le fate e de gli dèi. Ma l’illusione ormai s’è dileguata, e la canzone avea dimenticata; solo il silenzio de la mia prigione in mente mi tornò quella canzone.

« Canto la ninna nanna al mio bambino, che attende de la vita il rìo martoro ; la ninna nanna canto al mio piccino, chè non si desti dal suo sogno d’oro ». Così diceva il mesto ritornello, ed era tanto dolce e tanto bello. Ma il sogno d’oro ormai se n’è sfumato, e il bimbo s’ è dal sonno risvegliato. 12 Settembre.

II. O nuvolette, prossime a vanire serenamente ne li aperti cieli, deh, s’ io potessi insiem con voi partire, ravvolto nel biancor dei vostri veli! Con voi, ribelle spirto vagabondo, migrar vorrei dagli uomini e dal mondo, vorrei, con voi, da la montagna al mare, per gli spazii de l’aria vagolare. Ma sono, o nuvolette, un prigioniero ed in odio a’ potenti de la terra, qui m’ han gettato il mio destin severo ed i protervi, che mi fanno guerra. A questa sorte non poss’ io fuggire, e mi tocca nel carcere languire. Se avessi l’ale, oh come allor verrei, e con voi, nuvolette, volerei ! 14 Settembre.

II. O sorrisi di bimbe innamorate, lampi di gioia, e fior di giovinezza, quando tornate voi, quando tornate, poemi sempiterni di bellezza? Ora non siete che ricordi muti, e cadenze di cantici perduti; ricordi addormentati in fondo al core, e sospiri d’ un’anima, che muore. O amici de l’età mia venturosa soavi amici, non vi ricordate l’Arno solenne ne la glorïosa tersità de le belle mattinate? E le canzoni mormorate a sera sotto i balconi, ne la primavera? e gl’inni de le giovini baldanze, i fantasmi di gloria e le speranze?

Ma voi fuggiste, o amici, e voi, memorie d’amori, di tripudii, e di battaglie, voi mi sembrate come vecchie storie fra quest’orgia di ferri e di muraglie. Or coi raggi lontani illuminate il corso de le pallide giornate. E sol per voi men dura è la mia sorte, e sol per voi sono sereno e forte. 19 Settembre.


IL CANTO DELLA PRIGIONE — Quando muore triste il giorno, e ne l’ombra è la prigione, de’ reietti e de’ perduti intoniamo la canzone. La canzone maledetta che ne’ fieri petti rugge, affocata da la rabbia, che c’ infiamma, e che ci strugge. La canzon, che di bestemmie e di lacrirne è contesta; la canzone disperata de l’ uman dolore è questa. Noi nascemmo, e — fanciullini, per il pane abbiam lottato, senza gioia di sorrisi, sotto un tetto sconsolato.

Noi soffrimmo, e niun ci volse un conforto, o porse aìta, niuno il cor ci ritemprava a le pugne de la vita. Noi cademmo — e, giù sospinti, rotolammo per la china supplicammo, e de li sdegni ci travolse la ruina. Or, crucciosi e senza speme, qui da tutti abbandonati, maledetto abbiamo l’ora ed il giorno, in che siam nati. Ma su voi, che luce e pane a noi miseri negaste, e — caduti sotto il peso de la croce — c’insultaste; sopra voi di questo canto, che ne l’aura morta trema, come strale di vendetta, si rovescia l’anatèma. Penitenziario di S Giorgio, 20 Settembre 90.

IRA — Vorrei che questo mio tristo pensiero mettesse corpo ed ale, e s’ involasse, fieramente altero, armato di pugnale. Sui potenti, briachi nei conviti, piombasse, qual saetta, scotendo su quei volti illividiti l’arma de la vendetta. Su la plebe, che affronta la tenzone de la miseria, e freme, gittasse il grido de la ribellione, ed un raggio di speme. Ma quei, che striscia, inverecondo e vile, per un tozzo di pane, vorrei bollasse il mio vindice stile, come si bolla un cane. Livorno, Carcere dei Domenicani, Settembre 1891.

MESSAGGIO — Ho veduto la luna fuggitiva occhieggiar per la stretta finestruola, come un saluto, e come una giuliva canzone, che scintilla, e che consola, ho veduto la luna fuggitiva. Io sospiravo : « O mite pellegrina, non ti rammenti, di’, non ti rammenti il manto azzurro de la mia marina frusciante al rezzo tiepido de’ venti, non ti rammenti, o mite pellegrina ? Di’, non ricordi i luminosi baci, che mi davi sui morbidi capelli, quando, a notte sul lido, le vivaci strofe cantai d’ignoti menestrelli, non li ricordi i luminosi baci?

O dolce amica, tu sei sempre quella, pallida e casta su l’iroso flutto, ne l’alto infuriar de la procella; tale io ti vidi a le mie gioie, al lutto; o dolce amica, tu sei sempre quella. Io non sono più quello, io più non canto, sul mio capo l’odio uman si addensa, non piegai, non pregai, più non ho pianto; mi avvolge, e avvince la ferocia immensa; io non sono più quello, io più non canto. Domani, a sera, quando tornerai da continenti ed oceàni ignoti, il mio golfo, là giù, saluterai, sotto i declivi e sotto i colli noti, domani, a sera. quando tornerai. Va’, pellegrina silenziosa e pia, e questo bacio, che il mio labbro getta, recalo al labbro de la madre mia, che ne la solitaria casa aspetta; va’ pellegrina silenziosa e pia. S. Giorgio, 24 Settembre.

A MIO PADRE — Voce che in cor mi parli, che i giambi feroci mi detti, solo un momento, solo un momento taci. STECCHETTI -Polemica O babbo, o vecchio mio, ne’ trepidi giambi trabocca l’onda vivace di tenerezza antica. Quando me, giovinetto, sui libri severi curvato invigilavi — l’anima tua sentivo. Sentivo la carezza de ‘l guardo lucente ne’ sogni fantasïosi -su questo figlio tuo. Sentìa, quasi buon genio guidante con mano secura, la tua canizie su la mia balda aurora. Eran, ne’ tuoi ricordi, superbi fantasmi di gloria; nel mio pensiero, de l’avvenire i raggi. Fuggiti son quegli anni -compiuti li studi severi... ma la memoria ne resta fitta in core.

O babbo, o babbo, io pure di quella tua tempra pugnace ho li entusiasmi, e le baldanze fiere. Hai combattuto, o babbo, ed eri tu pure un ribelle, e questa patria fu l’ideale tuo. Questa patria, che avvinse — volendo inceppare al pensiero i voli audaci — del tuo figliolo i polsi. Mèta che i padri vostri dicevano pure utopìa, e fecondata fu per il sangue vostro. Siete, o vecchi, il passato, ma il santo avvenir vi saluta, ruderi mesti — d’un ideal, che muore. Noi pure, un dì, morremo, fatale legione serena, forse, ne le alte pugne del secol novo. Questa è la vita, o babbo, la vita — battaglia perenne verso una mèta, che, via pe’ cieli, ascende. Io pur sono un soldato, io pure la spada fulgente snudai, nel nome di libertà solenni. Deh, benedici, o babbo, l’acciaro ch’ io serbo incorrotto, e il figliuol tuo, che a la battaglia move! Lucca, Penitenziario di S. Giorgio, Novembre 1890.

SALUTO — Ma se l’arte ha tradito questo mio vecchio cuore giovinetto, io non sono avvilito, e, di piè fermo, i vituperi aspetto. Ho pugnato, ed ho pianto, e i singulti de l’anima fervente ho trasfusi nel canto, che nel petto fervea baldo e potente. E mentre a me fuggìa il ritmo audace de la strofe alata, vampe di poesia salivano a la mente estasiata. Ma s’ io non son poeta, resto ne la battaglia, e son soldato, e l’arte a me non vieta di morire da gl’inni confortato. Quest’ inni io li ho raccolti tra la gente che suda, e che lavora, con li sguardi rivolti de l’avvenire a la fulgente aurora.

Li ho colti tra i singhiozzi di chi per fame, e per miseria langue tra i cenci umili e rozzi, sotto cui freme, attossicato, il sangue. D’arte, il so, non è questa opra gentile e fina. E’ la parola incorrotta ed onesta, che dal tugurio a l’officina vola. E dice a questa gente, che soffre, e che non pensa, e che non vuole. -« Sorgi radiosamente! A l’orizzonte, già sfavilla il sole. Sorgi! Tu se’ la gloria d’un mondo, che si abbella, e che si muta. Te, novissima istoria, il morituro mio canto saluta ». Milano, Aprile 91.


INTERMEZZI


I. INTERMEZZO FUNEBRE — ALLA GENTIL MEMORIA DI LUIGI MORI E AL DOLORE INEFFABILE DELLA MIA BICE

Dicono i morti: — Beati, o voi passeggieri del colle, circonfusi da’ caldi raggi de l’aureo sole, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A voi sorridono i fiori, sempre nuovi sopra la terra a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. Dicono i morti : — Cogliete i fiori che passano anch’essi, adorate le stelle, che non passano mai. GIOSUÈ CARDUCCI, Odi barbare

I. O mia dolce sorella, una gentil ghirlanda nuzïale io componevo ne la mesta cella per la tua fronte pura e verginale. E sospiravo il dì, che tu, fra i veli pallida e pensosa, il bianco serto, che il fratel ti offrì, avresti unito ai tuoi fiori di sposa. Ed ora m’hanno detto, che tu indossi una vesta e un velo nero, che risuona di pianto il nostro tetto, ed il tuo sposo dorme al cimitero. Ahimè! la pia corona di nozze giace putrida in un canto, e il tuo triste fratel coglie, e ti dona questi memori fior di camposanto. Carcere dei Domenicani, 19 Luglio 90.

II. O Bice, o Bice mia, te ne rammenti? era l’aurora de la nostra vita, e salivamo garruli e fidenti per la china fiorita. Te ne rammenti de le pie novelle, che mamma ne le veglie ci narrava, e de le nenie arnonïose e belle, quando ci addormentava? Eran fate custodi d’un tesoro, regine e cavalieri valorosi, bei menestrelli dai lïuti d’oro, prenci forti e pietosi. Su la trama gentil de le leggende, sogno raggiante il mondo ne apparìa, e noi, ravvolti di leggiadre bende, in dolce compagnia, venimmo sù per il mortal cammino, tu mite e pura come una vestale, io baldo e forte come un paladino sotto un vessil nivale.

Un dì nel raggio dei tuoi sogni casti surse, buono e gentile, un giovincello, tu, come sposo, lieta lo accettasti ed io come fratello. Che gioia ne la casa, ti ricordi ? tornando i due scolari a’ dì festivi, e che tripudio di melòdi accordi, e di canti giulivi! Ei ti recava od un profumo o un fiore, ed io la poesia dei miei vent’anni; vigile al famigliar desco l’amore tenea lunge gli affanni. Ed or conteso m’è l’aperto cielo da una muraglia squallida, cinerea, sul nostro tetto è sceso un tetro velo, come coltre funerea. E tu piangi, sorella, oggi, e negato è a me il conforto d’asciugarti il pianto: ed io, chiuso nel duol, t’ho consacrato questo povero canto. 20 Luglio.

III. .... oggi il nostro Luigi dal suo letto di dolore vuoi dare a Bice la fede di sposo. (Da lettera famigliare). E forse — pensa il core — è questo istante per la sorella mia fiero e crudel, forse la mano al fuggitivo amante dona or di sposa, e il giuro suo fedel. E presso a l’origlier sacro a la morte appresta amore un’ara nuzïal... ma tu, sorella, sei pietosa e forte, e sai che questo rito è un funeral. Al tuo diletto su la cerea faccia vedi il dolce sorriso illanguidir, al desiato amplesso aprir le braccia ed esalare l’ultimo sospir. E tu sorridi, e tu sorridi ancora, fidente de l’amore a la virtù, come innanzi a le tenebre l’aurora.... ma il tuo Luigi non sorride più.

Ma il tuo Luigi è morto, ed il supremo bacio fraterno da me attese invan, ed io qui, solo, mi dibatto, e fremo, e qui m’inchioda una feroce man. O maledetti! che al fratel negate il sacro abbraccio di colui, che muor, voi che li onesti a libertà strappate, irridendo a la morte ed al dolor. Vigliacchi! e voi, se de le umane sorti la rea vicenda si tramuti un dì, tra i paurosi e lividi sconforti, lo strazio coglierà, che altri soffrì. A l’odio, o Bice, tu lo sai — non era nato questo mio cor mite e gentil, ma sui polsi ho una traccia turpe e nera, come ricordo de l’oltraggio vil. E in fondo al petto sanguina una piaga, cui non varranno balsami a lenir; e d’amor solo il cor più non s’appaga, e d’odio avvampa, e di pugnace ardir. Per la memoria pia di questo morto a un vindice pensier giurai la fè, e muoverò, nel mio bel sogno assorto, dritto a la mèta con securo piè. Ma tu, sorella, che sei tanto buona, vigila, lacrimando, il bianco avel, e da questa mia povera corona recidi un semprevivo su lo stel.

Quel fiorellino deporrai su l’urna ove riposa un forte e nobil cor, ed ove, ne la pace taciturna, fuggon le larve del tuo sogno d’ór. 22 Luglio.

IV. -Duerme en paz ! — dicen los buenos. - Adiòs! — dicen los demàs. RAMON DE CAMPOAMOR O amico spirto, il dì (su dai precordi balzano ne la mente, fiammeggiando, le vampe dei ricordi! ...) che il tuo volto pallente vidi l’ultima volta, era un’austera mestizia nel tuo sguardo, quasi veggente de la iddia severa il sogghigno beffardo. Aulìva il Maggio, e, chiuso ne lo sdegno, io da casa fuggìa. Del fuggiasco a tante ire fatto segno tu eri in compagnia. Fu triste quel saluto; io presentivo nell’odio mercenario, che incalzava a le spalle il fuggitivo, l’onta del mio calvario.

E tu piegavi, pallido giacinto, sotto l’avversa sorte, e il tuo viso recava impresso e pinto il bacio de la morte. Così noi ci lasciammo, e da quel giorno io più non t’ho veduto; quello, per me, del tuo mortal soggiorno fu l’ultimo saluto. Mamma mi scrisse, che tu stavi male, e che soffrivi tanto; Bice vegliava presso al capezzale, e si struggeva in pianto. Poi vi sposaste, e quasi ravvivato da la dolce sembianza de la fanciulla che ti stava a lato, rifiorì la speranza. Nel mite raggio dei sorrisi casti l’occhio tremulo assorto, per la vita, da prode, invan pugnasti, e, da prode, sei morto. Ieri mia madre con la veste nera al parlatorio ho visto e mi domando ancor, se questa è vera storia, od un sogno tristo. Carcere dei Domenicani, 25 Luglio

IV. Perché mentre il reo cavalca Glorioso, trionfante Geme il giusto rotto il peso De la croce sanguinante? . . . . . . . . . . . . Così ognuno si domanda La risposta che ci tocca, Son due zolle, che per sempre Ci sigillano la bocca. ENRICO HEINE, Zum “Lazarus” Oggi mamma ha recato il pio messaggio, che il morente Luigi le affidava, e a l’imminente prova il mio coraggio riconfortava. E diman siederò sul duro scanno, ove il reo siede corrucciato e fiero, e di fare un processo crederanno al mio pensiero. E diman l’ ira torva del potenti le nubi addenserà de la tempesta, e de le umane leggi i dubbi eventi su la mia testa.

Ma le ultime parole di quel morto solenni, e piene d’una triste calma, hanno in me suscitato lo sconforto cupo de l’alma. -« Qui tutti presso a me (del morienteerano queste le parole estreme) veniste ad allietare del dolente l’ore supreme ». « I miei compagni e la mia dolce sposa raccoglieranno l’ ultimo sospiro; e a voi, che a torno al mio letto in pietosa corona io miro, mercè di tanto caldo affetto; o cari, ben mesto ai colpi de la morte io cedo, io parto, e Pietro a consolar gli amari addii non vedo ». « Quando più non sarò gli porterai o Bice, questo mio fraterno bacio, e a ritrovarmi teco il condurrai, ov’ io mi giacio». « A lui direte, è questa la parola d’un moribondo, che la vita e un vano desìo, felicità la eterna fola d’un credo insano. « Chè se la terra una dolcezza accoglie vera, grande, ineffabile, profonda, lei non adduce d’abbaglianti voglie la mobil onda.

«La dolcezza del mondo è presso il santo sorriso de la sposa e de la madre, se veglia e splende su quel mite incanto l’occhio del padre. « E gli direte, il popolar favore mal fermo. Oh come, in suo fraterno ufficio, solo ed ignoto pugnerà ne le ore del sacrificio ! « E un giorno a le baldanze ed agli affanni, a li entusiasmi del suo cor fedele non tardo seguirà dei disinganni lo stuol crudele. « Pria che lo colga lo sconforto amaro consacri a famigliari opre l’affetto, e teco, o sposa, allieti, ed ami il caro paterno tetto. « Io muoio, Bice, ma se il fato acerbo m’ha dai soavi tuoi nodi strappato, m’è dolce anche la morte — io son superbo d’averti amato». Tale il morente ragionava. Ed io, ne la mestizia dei ricordi assorto, ripenso tanta giovinezza. Addio, povero morto! Addio, fratello — addio — compagno onesto del mio tempo migliore, o pie fidanze dei più baldi anni miei, serto contesto di rimembranze!

Ne le ore meste de la vita — quando, da la viltà percosso e da la ingiuria, sanguina il cor, e sovra esso mugghiando il nembo infuria ricorderò tuoi detti estremi. Orrendo certo è il presagio; pur contro l’immenso turbo de le ire io movo, e non attendo lode e compenso. Tale il mio fato; e tu, povero estinto, non dir ch’io manco al tuo desir: la mia bandiera io seguo, e un dì, forse, non vinto, cadrò per via. Io fui già prode, e tu, che non piegasti l’ardito cor giammai, pe ’l crudo e fello destino, a la viltà non consigliasti il tuo fratello. Ma il gentil voto intendo: a la tua sposa custodia invochi; ed il fratel pugnace, - « M’è sacro, dice, il desir tuo; riposa, fratello, in pace ! » 28 Luglio.

VI. Ahi, ma tu non volevi morire: tu addietro volgendo il capo da la nera fantasima seduta al tuo letto, dicevi: via, fate, o dottori, che questa febbre mi lasci, fate ch’ io guarísca, vi prego. G. CHIARINI -Lacrymae. Ma tu lottavi, ed era l’implacabile battaglia con l’ignoto, e degli assalti della dea terribile non uno andava a vuoto. A torno premurosi, infaticabili venìan, con vece alterna, fidi i compagni dei tuoi studii, a porgerti l’ ultim’opra fraterna. Là presso, i libri, muto stuolo mentore, giacean dimenticati; de la tua tesi i fogli eran sul tavolo sparsi e disordinati.

Per la stanzetta candida aleggiavano, eco di estinti suoni, l’audace strofa e il ritmo de le libere goliardiche canzoni. E via, su l’Arno, sonnacchioso e tremulo, correa l’onda leggiera, tra i colli toschi salutante il libero sole di primavera. Fremea del mondo ne l’ immenso palpito l’alma rinvigorita, e battea più vivace in seno a gli esseri il flutto de la vita. E tu sentivi su la fronte il gelido tócco de la rea diva; ti rivolgesti, e sorridendo intrepido a lei, che ti feriva. Quasi fosse l’amor de la tua vergine un usbergo incantato, dietro a lui ti paravi, muto e vigile, come un vecchio soldato. Ma non ristette, e non cessò la perfida da gli assalti brutali, e alfin t’avvinse, fredda, inesorabile, negli amplessi mortali. Allor cedesti, e simile a l’ indomito gladiatore morente, l’egro fianco composto, e con il vitreo occhio a l’albor nascente;

ad uno ad uno i cari tuoi d’ un languido sorriso salutasti; ma invan con le pupille intente ed avide l’amico tuo cercasti. E pur costui ben conoscea la tragica mèta del tuo destino, pure ignoto a lui non era l’ ultimo giorno del tuo cammino. Ed ei non venne. Ahi, queste leggi orribili chi mai dettò a le genti ? queste leggi feroci, che ricusano un conforto ai morenti? Allor che tu ne le algide, spasmodiche strette ti dibattevi, io fremebondo, del feroce carcere entro i termini brevi, ripensavo i trascorsi anni e le splendide orgie di nostra speme, il cammin lieto, i prati verdi e floridi che percorremmo insieme. Un dì se queste, a me contese, e squallide soglie potrò varcare, quando toccato avrò col piede trepido di casa il limitare, di te, del mite aspetto, de le giovini tue virili baldanze, non troverò, per fina opra d’artefice, che le fredde sembianze.

E dei ricordi — tra le bianche ceneri d’una speranza altera non resterà che un tumulo, un’ imagine ed una veste nera. 29 Luglio.

VI. Quando sentisti fuggir la luce, l’aria e la speranza, e tra l’ignota ombra vincente udisti salire alto i singhiozzi per la stanza, e, come un lampo, balzar dal core le memorie, oh quanta tristezza! E non sperar tregua nè scampo! Morir, quando di fior l’orbe s’ammanta! Saper, che tutta ride la terra a la stagione novella, e aver la giovenil carne distrutta di rio malor da le roventi anella! Aver creduto i lunghi studii in questi dì compire, e, presso a la fatal mèta caduto, nel fior dei venticinque anni morire! Sentire a torno lo schianto de gli affetti, e del dolore; i rai più non vedere almi del giorno, non poter più risalutar l’amore!

Con la velata pupilla il tenebroso aere scrutare, e non scernere più la donna amata, chiamar sentirsi, e non poter parlare! O moribondo, come dolente allor, forse, ti apparve la fuggitiva imagine del mondo, di lutti cinta e di mentite larve! E qual bugiarda sfinge allora la vita hai maledetto, mentre la diva tragica e beffarda ti componeva sul funereo letto. 30 Luglio.

PENSÉES — Un giorno mi portarono cinque grandi viole del pensier, io le accolsi con gioia.... poi le dimenticai dentro un bicchier. Mia madre al parlatorio il linguaggio svelommi di quei fior, e l’eco soavissima dei cari detti in seno vibra ancor. Un fior, essa diceami, è il pianto, che il materno occhio versò, un altro è del tuo vecchio padre il pensiero, che a te ognor volò. Il terzo è un bacio tenero, che Bice manda al mesto prigionier; d’affetti e di memorie, del buon Luigi il quarto è messaggier.

È di Matilde l’ultima viola, d’amistà pegno fedel; quei fiorellini ceruli insiem noi recidemmo su lo stel. Le ricercai, le memori viole, o mamma, il giorno del dolor.... erano vizze e pallide, come un ricordo di perduto amor. In quel giorno spezzavasi una bella e gagliarda gioventù.... in quel giorno tra gli uomini, Luigi nostro, tu non c’eri più! Ed io muto nel carcere pensavo de’ tuoi baldi anni ‘l fiorir, rivedea, tra gli studii, il tuo volto sereno impallidir. Ahi, quel fiore sì languido oggi non vuol più dire: « io penso a te »: è il tuo saluto funebre, che ripete: « ricordati di me ». 1. Agosto.

CONDANNA — ... quante speranze, fratello mio, quanti sogni se ne andarono con questo morto nostro carissimo. E gli accusatori tuoi neppure vollero consentire ch’io ti vedessi, e ti recassi il suo bacio supremo ... . (da lettera) Mesta e dolce, sorella, la triste battaglia ho perduto, e, solitario, torno a la fredda cella. Oh, quante hanno gittato manate di fango sul capo, que’ farisei, del tuo fratel dolente! Io combattevo — in alto tenendo la fronte serena, la fronte mia, che non ha mai piegato. Essi — d’un odio cupo ne l’imo del cuore frementi - m’han tolto a’ dolci di pio fratello uffici. Non rivedrò la balda catena de’ colli festanti su cui l’aurora surse di nostra vita; Ed ove giaccion quete ne l’ombra de’ monti solenni, presso al bel golfo, l’ossa de’ padri nostri.

Non rivedrò, da l’alto, l’azzurro Tirreno beato, che i miei di bimbo ricci capei baciava. Non gli uliveti grigi, che per la maremma infinita sospiran forte sotto i tramonti d’oro. Non le convalli Elbane, che arrisero al patto d’amore, non l’urna bianca, dove Luigi dorme. Dorme, con le speranze, co’ sogni nel nulla sopiti, nel buio tetro, gelido de la morte. E tu forte, tu buona, tu vergine e vedova, in atto dolce inghirlandi l’erma de’ tuoi pensieri. Oh fronde e fiori mesti ! non più, sorridente ne’ cieli, la primavera bacia il tuo fior diletto! Oh foss’ io teco ! almeno verremmo narrando di lui soavemente. Tu quel suo bacio estremo Mi deporresti in fronte. Dal pallido viso l’amara onda del pianto io ti verrei tergendo. Ma quel fraterno bacio non vollero a te consentire i farisei, cui non commuove il pianto; i farisei feroci, che de la lor bava sanguigna volean lordare la giovinezza mia. I prezzolati sgherri, che de l’ignominia lo stimma credean bollarmi sopra la onesta fronte. Mentre la forte plebe — la plebe gagliarda a l’intorno ridea, sprezzando, de le calunnie vili.

Ed oggi il tuo soave sorriso m’ han tolto, e più cruda, senza quel raggio, la prigionia diventa. Quando al marmoreo cippo con memore cor tornerai al morto sposo questo saluto volgi: « Dolce compagno, dormi; te l’ira del mondo non tange nè dei potenti l’odio implacato attosca. Meglio la pace augusta del nulla, nel sonno perenne, che le battaglie trepide de la vita. Te d’un queto tramonto, compiuto l’alpestre cammino non confortava, giunto a la mèta, il raggio. Ma, te beato, a l’alma nutrice, a la terra tornavi, pria che a brandelli fosser pensiero e core. Chè, se la immite legge di morte troncava li stami a tanta speme, non de le umane leggi le avvelenate lame, la giovine carne straziando, te crucieranno di codardie crudeli. Entro l’urna nivale riposa, compagno sereno, senza rimpianti de la deserta vita! » Così presso quel marmo, bagnando di lacrime i fiori, dirai, sorella, le tue querele amare. Mentr’ io solo e pensoso, nel gorgo dei mesti ricordi, il serto intreccio de’ sospirosi giambi. Carcere dei Domenicani, 4 Agosto.

DUE NOVEMBRE — O voi che ne le fosse umide e nere o sotto i marmi candidi dormite, oggi un sordo rumor per le severe tacite sedi errar non lo sentite? Oggi è il dì che i viventi in lunghe schiere traggon pensosi e muti a le romite vostre dimore; ed hanno in man fiorite ghirlande, ed hanno in cor pianto e preghiere. GIUSEPPE CHIARINI, Lacrymae. Quante memorie, o Bice, in questa notte buia e sconsolata! Oh d’una infanzia garrula e felice, larva sfumata! Oh fantasie gioconde, ribelli al ritmo di studiato verso, erranti strofe, nenie vagabonde de l’universo! Oh per li elbani clivi carme infinito di geniali accordi! eravamo sì baldi e sì giulivi; te ne ricordi? Te ne ricordi? a piaggia de l’ondata vanìan le brume stanche; salpavan da la ripa erma e selvaggia le vele bianche.

Tu eri piccolina, gaia, gentile, io ruvido monello; oh infantil bisbiglìo d’ogni mattina, com’eri bello! O Bice, ho ripensato, stanotte, le paure d’altre volte, le fole udite, mezzo acddorntentato, lugubri e stolte. Nella notte dei morti in sogno rivivean quelle leggende, scendean di scheltri, da l’avel risorti, fosche tregende. La visïon spettrale riddava al mesto suon de le campane, novellanti nel buio a funerale favole arcane. Oggi non più. L’affetto solo rivive memore al dolore, oggi son morte le paure, e in petto non trema il core. Eppur, deh, s’io vorrei di nostra infanzia la illusione pia! ma la tua fede nei moderni Dei non è più mia, Ahimè! se fosse vero, che un trapassato spirito errabondo potea stanotte uscir dal cimitero, e gir pel mondo;

ei ben sarìa venuto, il tuo mesto Luigi a la prigione, m’avrìa portato il bacio ed il saluto de l’alme buone. Ahi ! muta è la sua tomba, chiusa dal gelo nel silenzio eterno, e la tragica squilla oggi rimbomba, come uno scherno. Stanotte, o Bice, invano nel mio carcer movean le ricordanze, invano a requie un suon tessea lontano macabre danze. Ma l’aerea coorte de li spirti ne’ miei sogni non scese, non temo più dai morti e da la morte ire od offese. Da che i vivi crudeli m’ ebber, pel mio pensiero, i polsi avvinti, se pur non credo ne li empirei cieli, amo gli estinti; amo questa serena folla di atòmi, cui morte travolve; corrosi anelli d’immortal catena, perpetua polve. E so ben che la vita è un episodio ratto e passeggiero, un’audacia di brame inassopita, un sogno altero;

ma so pur che, se il flutto de l’essere, onde l’uom soffre, o gioisce, è materia che palpita, non tutto con lui finisce. L’umanità non muore, e i ruderi di noi serba immortali, perpetuando i nostri odi, l’amore, il fango e l’ali; ali di cherubino, torve passioni, aurore scintillanti, di libertà radiosi in sul cammino martiri e santi. Qui l’averno o l’eliso son la fraterna pace, o l’aspra guerra; lotta il veggente, e vuole il paradiso qui sulla terra. Ma tu, sorella, speri, levando prieghi supplici e devoti, ch’ei viva in grembo ai fulgidi emisferi di mondi ignoti. Non io. Pur se il tuo pianto men triste è al raggio de l’antica fede, prega, sorella, nè ti offenda il canto di chi non crede. Lucca, Penitenziario di S. Giorgio, 2 Novembre 90.

VA’ — Ormai le vie del vulgo seguiremo E sfruttando di nostre braccia l’opera, Alla ventura vivere potremo, Potremo ancora attendere, L’ora che il nostro letto al tuo dappresso Sarà scavato, ed al dimani, gelido Come sul tuo, sul nostro nome anch’esso L’oblio potrà discendere. H. MURGER, Dalle “Nuits d’hiver”. Va’, libriccino mio, gentil residuo di battaglie, di lagrime, anatèmi e di spasimi, a ricordanza pia d’ore mestissime. Quando a te, messaggiero in vesti povere, domanderanno gli uomini: « A che venisti? » « O pavidi, » baldo risponderai, « venni a combattere ». Io venni, d’onde a vostre leggi tragiche squallide turbe imprecano, d’onde, per vostra infamia, livide fiamme d’ira e d’odio guizzano.

Ivi la luce d’un mondo empio precipita, ivi le anime piangono, ed il pensiero medita truci vendette e ferocie implacabili. Non me — quando il furor del patrio eodice sarà placato, e, libero, lascerò questo carcere tale odio al novo battagliare inanimi! Me giova meglio ne ‘l dolor la tempera adamantina assumere, ed a le pugne eroiche ricolmo il cor d’entusiasmi — muovere. O Bice, allor che i vitupèri e i triboli de la vita, le splendide ire e gli amori fervidi avran ròso il mio cor — sul freddo tumolo, presso al fratel dei brevi anni miei giovini, non menzognere epigrafi incideranno i memori, e sovr’esso l’oblio potrà discendere. Ma se di alcuna amica man le linee avrà quel sasso funebre, diranno in mia memoria: « Ha molto amato, e per amor fu milite». Lucca, Penitenziario di San Giorgio, 3 Novembre.


NOTE ALLE PRIGIONI — Alcuno troverà strano che le note a queste due parti del canzoniere sieno così abbondanti — quasi strabocchevoli, eccessive; ma potrà, scorrendole, convincersi, che forse, non riusciranno del tutto inopportune, se vorrà considerare l’indole della pubblicazione, scritta principalmente per il popolo che certe concettosità, addensate sui veicoli tirannicamente angusti del verso, non giungerebbe a comprendere così di leggieri. Per quelle che si riferiscono alla prima parte « Prigioni » potrei anche aggiungere, che, dato l’ambiente speciale e caratteristico, in cui si svolge l’azione di quei bozzetti, l’esuberanza delle dilucidazioni e delle notizie offerte su quel mondo mestissimo — quasi ignoto agli ufficialmente onesti — che è il carcere, non sarà, in ultima analisi, ritenuta affatto inutile. Perché il libro presente, più che un pretensioso canzoniere di carcerato, ama essere una raccolta di quadretti di genere e di appunti, in prosa ed in versi — una sintesi del come si vive e come, presso a poco da ognuno, si pensa in prigione.

Il libro, adunque, avrei dovuto intitolarlo più modestamente appunti di vita carceraria, chè tale è in fatti, se bene anche possa, e non a torto, sembrare incompleto. Ma forse chi sa che all’impenitente, benchè oscuro, agitatore non fornisca in seguito la solerzia dei patrii poliziotti il tempo ed il modo di completarlo là dove è manchevole. E se in questa edizione si trovasse anormale il fatto che le note tendano quasi ad uguagliare in abbondanza i versi, e che alla prefazione, assai diluita in lunghe pagine di prosa, venga ora di rincalzo, con questo fascio di annotazioni, una specie di epilogo in forma troppo dimessa, io dovrei nuovamente ricordare che non ho inteso di scrivere un lavoro con degli intendimenti d’arte pura — nel che sarei riuscito insufficiente — ma più che altro un libro di descrizione, di polemica, di battaglia. Se altri vorrà insistere che le sovrabbondanti pagine occupate da questa parte dilucidativa, contengono, invece di note, altrettanti veri e proprii bozzetti in prosa, tanto peggio per le pretese letterarie del libro, se per caso ne avesse; e tanto meglio per il buon popolo che vorrà leggerlo, e che potrà così meglio intenderlo. Ed i signori critici, se vogliono, tempestino pure anche contro questa antiestetica asimmetria. Ho dovuto subire ben altre requisitorie, e bene altre scomuniche ! L’Arresto. — Pag. 35. — Qualunque descrizione resterà sempre lunge dal senso acuto di sconforto, quasi di sgomento, che sorprende l’uomo minacciato nel suo diritto più caro la libertà. Quegli uomini freddi, impassibili, lugubri che, rivestiti della ufficiale implacabilità della legge, invadono il domicilio

privato, lasciano fra i ricordi tristi di quel triste momento, contro tutto quanto sa di polizia giudiziaria, una punta d’odio, che si acuisce tormentosamente — sempre, -anche in seguito alla vista di ogni manetta e di ogni ammanettato. Non ho voluto nei versi che rievocano la nottata del mio arresto analizzare i moti psichici del momento ed il tumulto dei sentimenti interiori; forse neppure lo avrei potuto. Mi sono limitato ad uno schizzo della scena; degli episodii e dell’ambiente, quali restarono infissi nella mia memoria. I Domenicani. — Pag. 39. — E’ un vasto, non bello, edifizio che apparteneva un tempo ad una frateria dell’ordine di S. Domenico. Ora le celle degli anacoreti sono diventate le segrete del carcere giudiziario livornese — e del vecchio monastero non avanzano che il gigantesco crocifisso di legno che troneggia, funebre, di faccia al gran cortile, la chiesa, alta e vasta, dai cui finestroni salgono ai reclusi gli odori dell’ incenso e l’uggia stranamente poetica delle salmodìe, di qualche tardo fraticello, che biascica, nei dì festivi, la messa nella cappella del carcere. In compenso vengono su dalle inferriate, tra il rumore di una catena ed il cigolìo di una manetta, e ascendono, a volute larghe nell’aria, i ritornelli delle nuove canzoni della piazza, con qualche intermezzo di moccoli toscani. La Sveglia. — Pag. 40 — In tutte le carceri di Italia l’ufficio di dare i segnali -sveglia, minestra, aria, medico, silenzio -è assegnato alle campanelle. La sveglia nel carcere, manco a dirlo, obbliga il detenuto a saltare dal pagliericcio e a dar sesto alla cella

-a fare la pulizia, per dirla con gergo carcerario. L’ultima terzina del sonetto allude alla consuetudine del saluto mattutino tra i carcerati, tollerato solo nel carcere giudiziario di Livorno, a causa del carattere ribelle del buon popolo livornese, a dirittura refrattario a tutto quanto sa di disciplina e di regolamento. L’Aria. -Pag. 41. — Non in tutte le carceri, per verità, l’aria viene data ai reclusi in anditi coperti, come nel carcere giudiziario di Livorno. Nel Penitenziario di Lucca, per esempio, l’ora di aria libera non è, come nel carcere di Livorno, una mistificazione. Quivi le piccole chiostre, in cui il detenuto vien portato a respirare l’aria aperta sono proprio allo scoperto, sotto la cappa del cielo. Sarà anche quello il supplizio di Tantalo per chi, oltre che d’aria, ha sete di libertà; ma in ogni modo è un supplizio fisiologicamente igienico. In compenso però, a Livorno, nell’ora cosiddetta dell’aria, il naturale istinto umano di socievolezza si trova in qualche modo soddisfatto dalla comunanza che si accorda agli inquilini del carcere, i quali si mettono al passeggio — a tre celle per volta, consecutivamente. Il che non avviene nei carceri giudiziarii a sistema cellulare. La Visita. -Pag. 42. -La chiamano con linguaggio espressi. vo la battuta, perchè consiste appunto nella percussione dei ferri, di cui i guardiani carcerarii, a turno, tentano il suono nel modo descritto; mentre il sotto-capo guardia, circondato dal suo stato maggiore, ispeziona, per ogni verso, la cella.

Il Parlatorio. — Pag. 43. — Una delle più feroci delusioni, che amareggino chiunque è nuovo alla vita carceraria, riesce il parlatorio, la prima volta che il novizio, dopo il primo periodo d’istruttoria, può essere ammesso a goderne. Il babbo, la mamma, gli amici e quante persone care giungano ad ottenere il permesso settimanale di visitare il loro prigioniero, non possono fruire della sua compagnia e presenza, che attraverso un doppio ordine d’inferriate, a distanza l’una dall’altra, e ciò per brevi minuti, contristati dalla presenza di un guardiano, che deve intendere il colloquio. A me, per precauzione speciale, la regia procura infliggeva l’onore di aver presenti ai colloqui famigliari il capo od il sot- to-capo delle guardie. Onori questi, del resto, che non toccano se non ai malfattori più pericolosi. Santa Giulia. -Pag. 44. — Non so come questa poesia, potesse, alla vigilia dell’onomastico materno, uscirsene dal carcere, proprio per il tramite legale della regia procura, onde pervenire alla sua destinazione, senza urtare la suscettibilità di quei solerti magistrati. È vero che di questa longanimità si rivalsero in seguito sequestrando lettere a colleghi ed amici. La Procura Generale di Lucca poi, per dimostrare forse la completa indipendenza della magistratura dalla polizia, giunse perfino a spedire direttamente al Questore di Livorno alcune mie cartoline indirizzate a varii amici di quella città, ai quali annunziavo semplicemente una visita nel giorno della mia liberazione dal carcere. Era giusto. Così almeno il sagace Questore, dopo aver ben bene strapazzato e minacciato i destinatarii, a cui recapitò le

disgraziate cartoline, potè prendere le sue brave precauzioni; ed anche questa volta, grazie al valoroso Bancheri, la società fu salva. La Messa. — Pag. 47. — Mentre i regolamenti carcerarii si preoccupano assai poco della triste carne umana affidata alle ruvide cure dei poveri secondini, provvedono, invece, prudentemente alla salvazione delle anime, condannate ormai od in via di essere condannate dalla legge terrena. Se la minestra quotidiana al lardo è un po’ rancida, pazienza; la messa dei giorni festivi può far dimenticare le miserie ... carcerarie con la speranza dei godimenti celesti. Oh sagacia amministrativa del volterrianismo borghese! L’unico vantaggio sensibile di coteste messe per i detenuti miscredenti è quello di procurare un po’ più d’aria alla cella, restando gli sportelli — o bocchette — aperti durante tutta la funzione, ed anche di porgere in tal modo ai reclusi il destro di intendersi e di scambiare le loro idee per mezzo di un sistema completo ed ingegnoso di gesti e di segni convenzionali. Cotesto è il vero e proprio volapuk della prigione. La Fruga. — Pag. 48. — Sentii dare questo nome caratteristico alle perquisizioni che settimanalmente ed all’improvviso, in un giorno qualsiasi, vengono praticate nella cella e sulla persona del detenuto. E’ una vera e propria fruga. Nel carcere dei Domenicani son sette od otto le guardie guidate dall’ormai classico Bondi — un vecchio secondino che conosce non so quante mai generazioni di grandi e piccoli criminali suoi concittadini — che vengono incaricate di tale spinosa incombenza. Nulla sfugge all’occhio

scrutatore del vecchio guardiano, nè il più piccolo frammento di matita nascosto in una midolla di pane, nè il più breve stornello o il più microscopico viva od abbasso, tracciato in un angolo di muro. La Cella (N. 32). — Pag. 49. — Non è una cella speciale. Tut- t’altro. A bancarottieri fraudolenti, coi milioni in riserva, si era accordato, poco tempo innanzi della mia detenzione, e nel carcere stesso, cella e vitto speciali. All’anarchico pericoloso fecero bene a dare una celletta comune. In compenso gli fu di speciale — imposto una segregazione cellulare continua, contraria alle consuetudini dello stabilimento, per le quali non si tiene isolato, come nei cellulari, ogni singolo detenuto. Il Transito. — Pag. 50. — Le celle terrene del Carcere Giudiziario di Livorno sono riserbate alle ciurme dei forzati, che a ondate lugubri e periodiche riempiono di passag gio i Domenicani, avanti di riversarsi nelle varie colonie penitenziarie dell’arcipelago Toscano e nei diversi bagni penali della costa. Questo passaggio, questo flusso e riflusso sinistro di carne bollata dalla legge, nel linguaggio ufficiale del carcere prende un nome unico e comprensivo -transito. Il quale nome per traslato si adopera anche per indicare gli androni oscuri, in cui quella misera carne, che passa, viene gettata a rifascio nei giorni di sosta. Questo triste flusso e riflusso avviene, per lo più, sull’alba o sul far della notte. Il Silenzio. — Pag. 51. — Come il coprifuoco del medio-evo ed il silenzio militare odierno che n’è il barbaro avanzo, secondo

la disciplina del carcere, il segnale della campanella, che impone il silenzio, nelle prime ore della sera, obbliga il detenuto ad assestare immediatamente il letticciuolo ed a coricarsi. Uxoricidio. — Pag. 54. -Era un onesto operaio dello Stabili. mento Metallurgico. Si chiamava Poncet. Aveva sposato una bionda e bella ragazza. Dopo breve fedeltà e brevissimo amore allo sposo, la bella donna si dette liberamente ad altri amori. Il pregiudizio matrimoniale, l’indissolubilità del nodo civile, nel quale il povero operaio aveva creduto di trovare qualche cosa che gli garantisse l’amore della donna amata, e l’indiffe- renza con la quale costei si abbandonava ad altri amplessi lo trascinarono ad una disperata risoluzione. Una mattina la bionda adultera fu trovata morta per soffocazione violenta nella camera in cui aveva passata, col marito, la notte. Il marito, l’operaio francese, fu arrestato sotto l’ imputazione di uxoricidio. Il comitato degli operai, suoi compagni, mi aveva incaricato di prepararne la difesa, alla quale avevo già interessato Enrico Ferri. La mattina stessa che fui trasferito ai Domenicani era morto per avvelenamento. Benchè in compagnia, aveva trovato modo di ingoiare una quantità di zolfo e fosforo, raschiato da fiammiferi. Suicidio. -Pag. 55. — Per una strana coincidenza, nella cella ove era stato pochi momenti prima raccolto moribondo l’uxoricida, fu posto chi avevano i compagni chiamato a difensore del disgraziato, come sopra ho detto. Ricordo anche, che nelle prime notti della mia prigionia riluceva ancora per terra, come una gran chiazza fumante, la traccia del fosforo quivi

lasciata dal vomito dell’avvelenato, benchè si fossero bene spazzati i mattoni sporchi presso il pagliericcio. Nostalgìa -Pag. 58. — Inutile, forse, avvertire come il più piccolo incidente — la cantilena di un prigioniero, lo stridore di una catena, il battere delle ore — diventi un episodio importante nella monotona vita del carcerato. Passerotti. — Pag. 64. — Dovevo bene questi poveri versi di gratitudine agli unici e fidi compagni della mia prigionia. Campane. -Pag. 66. — Uno solo avevo dimenticato di ricordare fra gli avanzi del monastero ancora sensibile e visibile nella nuova destinazione del vecchio edifizio dei Domenicani. Un avanzo sensibile, ed oh come seccante! è il campanello della chiesa, che affligge col suo tormento perpetuo di campane dondolate ora a gloria ed ora a requie, i poveri carcerati. Odio. — Pag. 68. -Alle giornate lunghe di nostalgìa ed alle ore eterne di mestizia succedono, nella solitudine della cella, i momenti tempestosi dell’ ira e dello sdegno contro tutto e contro tutti. La presente poesia è il prodotto di una di coteste procelle psicologiche. Fuga. — Pag. 73. — Anche questa è una delle poche poesie, che poterono trovare modo di esser trafugate dal carcere, e pubblicate mentre ancora durava la mia detenzione.

Comparve nell’ Agosto dello stesso anno sul Corriere dell’ Elba di Portoferraio. Incubo. — Pag. 78. -Fra gli incubi, che afflissero le notti tormentose ed insonni di quella estate, per me trascorsa senza letizia di mare e di libertà, ho riportato in rudi esametri solo questo che si riconnetteva ad una brutale realtà — il transito dei forzati, che partivano, a due a due, sconsolati, per l’ isola d’Elba, ch’io non ho potuto ancora — dopo tutto questo — rivedere, altro che da lontano. Manette. -Pag. 80. — L’amico valoroso e gentile, che per tre volte innanzi a giudici togati e popolari mi difese da imputazioni, a gruppi di cinque o sei reati per volta, perdonerà a questi miei versi quanto di meglio non seppero dire sui gentili strumenti, di cui egli, criminalista e poeta, fece la geniale demolizione in una di quelle sue liriche difese, che non si dimenticano più, anche se non si ascoltarono precisamente dal banco degli accusati. A chiunque si ritrovi torno ai polsi di simili braccialetti capiti almeno la fortuna di imbattersi in un difensore affettuoso e potente come Enrico Ferri. Triste viaggio. — Pag. 83. — Come è accennato nella prefazione, dopo che il giornale battagliero Sempre Avanti ebbe pubblicata una scapigliata poesia da me inviatagli di carcere ed intitolata Giustizia, in cui davo qualche frustata, che pare arrivasse a colpire, e qualche. bene assestato buffetto ai miei accusatori magistrati e poliziotti — una mattina, all’ improvviso, il classico Bondi venne ad avvertirmi, che per un ordine improvviso

della procura i carabinieri erano venuti a prendermi per condurmi al Penitenziario di Lucca. Vestito in un modo abbominevole, dovetti salire sulla vettura, che mi attendeva, e, scortato dai carabinieri, e debitamente ammanettato, dovetti intraprendere, in così tristi condizioni, l’ identico viaggio, che, durante quattro anni di spensieratezza, era stato allietato dai canti, dalle discussioni, dai litigi dei compagni di studio, che frequentavano meco la Università di Pisa. A questi viaggi ed a cotesti ricordi si riferisce la poesia composta durante il mesto tragitto per la compiacenza dei bravi carabinieri e del loro brigadiere, che io avevo abbastanza catechizzati lungo la prima parte del viaggio, e che minacciavano, in atto di amicizia, di togliermi le manette. San Giorgio. -Pag. 86. — Il penitenziario di S. Giorgio, a sistema cellullare coll’obbligo del lavoro è un edifizio austero e grandioso che raccoglie parecchie centinaia di reclusi. Corrisponde esattamente all’ istituto penale chiamato dal vecchio codice toscano « Casa di forza » e fa assai onore al suo nome. Il genere dei lavori, che ivi si eseguiscono, consiste quasi completamente in tessuti; e dalle prime ore del mattino alle più tarde della sera il vasto edilizio è rintronato da un romorìo di telai in movimento, e da uno scotimento continuo di macchine grandi e piccole. Nei primi giorni cotesto rumore fa l’effetto del battito sordo delle eliche in un potente piroscafo transatlantico, e, chiudendo gli occhi, si ha come la impressione di trovarci in alto mare, lanciati a tutto vapore.

Giustizia. — Pag. 87. — Nel processo per fatti del I° Maggio in Livorno, pei quali fui accusato e condannato come istigatore principale, il poliziotto che accusava, e il magistrato, che sosteneva l’accusa, sentendo la debolezza degli indizi e degli argomenti che stavano contro di me, congiurarono per proiettare, se fosse stato possibile, una luce sinistra sulla mia persona. Lo dico subito, e a fronte alta: di un lievissimo fallo commesso da ragazzo, come socio di un circolo ginnastico — una indelicatezza insignificante da tutti conosciuta e da tutti dimenticata - si volle fare un punto d’appoggio per una infinità di insinuazioni, sbrodolanti giù giù per una grottesca requisitoria, contro il mio passato, nel quale, fruga e rifruga, non si era trovato che questo neo, e perfino contro la serietà e la buona fede delle mie convinzioni. Quando il grosso poliziotto formulò questa infame accusa, dichiarando che le idee, che io mi onoro di professare, da uno venuto dalla borghesia non potevano esser bandite e propugnate, se non per suoi fini personali e per speculazione, io scattai; nè so più quello che dissi, nè so quello che avrei fatto, se le sbarre della gabbia non mi avessero separato da quell’uomo. Io credo che tra le più raffinate crudeltà patite per opera di cotesta gente, la grassazione premeditata ai miei più gentili affetti, ai miei sentimenti più cari subìta in quel giorno per l’odio mercenario di chi aspettava, e li ebbe, ciondoli e promozioni, lascierà il solco più sanguinoso e profondo nella memoria dei miei odii e de’ miei dolori.

Ricordo che tornato alla prigione dopo quella udienza tempestosa, mentre il sangue mi bolliva ancora nel cervello, buttai giù, in un foglietto, senza cancellature, senza esitanze, vertiginosamente, le strofe di questa poesia. La feci poi recapitare alla redazione del Sempre Avanti che pubblicava un numero unico, stigmatizzante i miei accusatori ed i miei giudici. Che un prigioniero, guardato così rigorosamente come io ero, mandasse fuori dal carcere e potesse ottenere la pubblicazione di versi così ribelli, parve cosa tanto enorme alla Procura del re, che, perduta affatto la bussola, lasciò circolare, senza sequestro, il numero unico, che pubblicamente schiaffeggiava gli organizzatori del processo, e sfogò il suo odio in minute e interminabili rappresaglie contro di me, cui essa avea sempre sotto mano, e che fui sottoposto ad una vigilanza più rigida di prima. Giustizia fu riprodotta immediatamente dal Combattiamo di Genova, dalla Giustizia di Reggio Emilia e da altri giornali. Ad alcuni sembrerà eccessiva; a me pare anche troppo cavalleresca, e non corrispondente affatto alla suprema viltà di chi l’ ha provocata. Nenie. -Pag. 97. — Di coteste ottave, sullo stile del rispetto toscano, avevo riempiti i muri della cella. Qui ne ho riportate solamente alcune che mi erano restate nella memoria. A quest’ora l’arte semplice ed onesta di qualche imbianchino lucchese avrà già cancellato sotto l’oblìo di brave pennellate quelle traccie delle mie malinconie solitarie.

Chi sa se qualche altro imbianchino non. farebbe davvero opera meritoria per me e per gli amici miei, dando di frego a queste pretensiose traccie del peccato, che non mi contentai ahimè ! di lasciare in consegna ai muri soli confidenti di quelle ore meditabonde, ma che volli configgere sulla croce della pubblicità, dove, può darsi, riescano, ai più, strane ed incomprensibili. Il Canto della prigione. — Pag. 103. — Coteste strofe mi furono suggerite da una serie di stornelli improvvisati, sul far di una sera, da un recluso, e dei quali giungeanmi le imprecazioni roventi sulle cadenze strascicate di una melodia popolare volgarissima, che avevo tante volte udita per le vie e sulle piazze delle città di Toscana. Il triste cantore, era stato condannato, pochi dì innanzi, all’ergastolo per omicidio premeditato. A mio padre. — Pag. 108. — Al vecchio soldato, che per oltre trent’anni servì la patria, in momenti in cui l’ufficialità non tirava, come ora, la paga solo per strascicare la sciabola fra i tavolini dei caffè o adoperarla sulle schiene dei cittadini inermi, al mio buon babbo più che i poveri giambi, qui riprodotti, e ch’io gli mandai di prigione, sono bastate le condanne di cui i liberi magistrati Italici mi hanno fatto bersaglio, per spengere nel suo cuore ogni fiamma per il suo vecchio ideale patriottico. Dopo l’ultima mia condanna di Livorno, anche i giudici sentirono una sua frase rovente: giustizia croata!... Babbo, potevi dire semplicemente: giustizia.... Italiana! Ed era detto tutto.

NOTE AGLI INTERMEZZI — La prima parte di questi intermezzi, che porta il titolo «  Intermezzo funebre » fu, come altrove avvertii, composta unitamente ai versi raccolti sotto l’altro titolo « Prigioni » e ad alcuni di quelli, che figurano fra le « Battaglie » durante la reclusione subìta nelle carceri dei Domenicani di Livorno e San Giorgio di Lucca. La seconda parte degli intermezzi — che verrà inserito nel secondo volume — non è che la spigolatura di alcune fantasie, ch’ io chiamerò selvatiche, e di altre d’indole famigliare, in parte pubblicate da qualche foglietto letterario della Toscana o dell’ isola d’ Elba, in parte ripescate tra i miei scritti di qualche anno addietro. Di questi secondi intermezzi, qualcuno, tra cui sto per mettermi io stesso, porrà, in dubbio la opportunità; ma tant’ è quando uno pècca, ci prende gusto; ed i peccati sono come le ciliegie, uno tira l’altro. Il carcere indusse me in tentazione. Una volta che uno si è messo a fornicare con le Marinoni non si sa dove potrà andare a finire. Ci pensi un pochino sù la R. Procura di Milano, che mi ha intentato il quarto processo politico.

INTERMEZZO FUNEBRE I. — Pag. 117. — Mancavano pochi giorni alle udienze fissate per il processo, quando mi giunse la triste nuova di una improvvisa e insanabile malattia, che aveva colpito il giovane fidanzato della mia unica sorella. Il povero giovine morì in Pisa il 19 Luglio, dopo aver voluto sposare, al letto di morte, la sua Bice. Nel Luglio stesso i due fidanzati, dopo il mio processo, dovevano celebrare le loro nozze; ed io avevo già, nel carcere, quasi ultimato un poemetto d’occasione per gli sponsali. Invece la corona di nozze si convertì sotto le dita del prigioniero in una corona funebre. Solo questi versi, trafugati da un buon guardiano carcerario, potei fare pervenire a mia sorella, dopo la catastrofe, unitamente a tre epigrafi qui sotto riportate, che ora figurano incise nel marmo innalzato sulla fossa del morto, a sinistra del cimitero della Purificazione in Livorno. Ecco le epigrafi A RICORDO PERENNE DI LUIGI MORI STUDENTE NEL VI ANNO DI MEDICINA MORTO IN PISA A 26 ANNI IL 19 LUGLIO 1890 LA SPOSA INCONSOLABILE

MITE E PENSOSO INNAMORATO DELLA TUA SCIENZA E DELLA TUA BICE, ASCENDEVI BALDO TRA GLI UOMINI LA ONESTA GIOVINEZZA, VIVACEMENTE AMATO. GIUNSE LA MORTE E SUL TUO PALLIDO VOLTO COME GUIZZO ESTREMO DI FULGIDA PACE, BRILLO’ ANCORA UN SORRISO PER LA TUA DILETTA. DESIO GENTILE DI GIOIE PROMESSE DALL’ AMORE, E DAL FATO FEROCE NEGATE ALLA TUA LUNGA FEDE. O LUIGI, IN TE CAREZZANO I DOLCI SOGNI DI VERGINE, DI SPOSA, IN TE LE PIE ILLUSIONI, LE SPERANZE. AHI TRISTE VENTURA ! FU IL TUO LETTO DI MORTE LA NOSTRA ARA NUZIALE; ED I FIORI SBOCCIATI PER LA MIA CORONA, INGHIRLANDARONO MESTI LA TUA SALMA. SU L’URNA OVE POSI, LACRIMATO DAI BUONI, OR VIGILA E PIANGE UN AMORE NON PERITURO.

III. — Pag. 120. — La lettera famigliare ricevuta nel carcere pochi giorni prima del processo annunziava la catastrofe imminente, e la ferma decisione del morente di unirsi, fosse pure in fin di vita, con la giovinetta sì teneramente amata. La cerimonia nuziale, tragica per il momento in cui avveniva, ebbe luogo in Pisa; in quel giorno furono composte le due prime strofe della poesia, ultimata solo due giorni dopo la morte dello sposo infelice. Auguro agli amici dell’ordine, in un momento qualsiasi della vita, qualche cosa di simile allo strazio di quel solo giorno di prigionia, lontano e ad un tempo in prossimità della famiglia, e nella impotenza di confortare, con la presenza almeno, tanta sventura domestica. IV. - Pag. 123. — L’ ultima volta, che lo scrivente vide il povero giovine, fu in una delle occulte visite fatte a casa, mentre già pendeva il mandato di cattura. L’arresto non avvenne, che, insidiosamente, la notte del 13 Maggio. V. - Pag. 125. — Benchè per la improvvisa sventura — le consuetudini fiscali consentendolo — la promessa del signor Procuratore del re in Livorno mi facesse sperare un colloquio intimo con mia madre il giorno dopo la catastrofe, nondimeno l’abboccamento non fu poi concesso che alla vigilia del processo, forse nella pia intenzione che il saluto sconsolato del giovine morto, portato da mia madre, avesse potuto contribuire a scuotere la fermezza dei miei principii nella imminenza del dibattimento orale.

VI. — Pag. 129. — Uno dei più crudeli spasimi del morente, oltre la malattia crudelissima, che distrusse in poco più di venti giorni sì florida giovinezza, fu il desiderio ardente in lui, ed insoddisfatto, di riabbracciare, per l’ultima volta, il compagno dei suoi studii e della sua gioventù, imprigionato. Fra le leggi della natura e quelle degli uomini, oh quanto più feroci queste ultime ! Pensées. — Pag. 135. — Non ci sarebbe da meravigliarsi, se alcuno leggendo questa poesia trovasse strane per un rivoluzionario queste tristi meditazioni sul mite linguaggio di un fiore nei giorni di lutto e ricordanze. A certa gente non riuscirà mai comprensibile, come un cuore che ama le battaglie sconfinate per le sconfinate libertà, possa anche verseggiare, dio sa come, sulle tenui e gentili significazioni di una corolla appassita, donata dalla mamma al figlio carcerato. D’altra parte certe spiegazioni è impossibile farle entrare nei cervelli di chi sta, per suo comodo, con le maggioranze imperanti, pur di non incorrere nelle noie e nelle persecuzioni che tutte le eresie — verità del domani — si sono sempre portate dietro. Condannna. -Pag. 137. — Il 4 agosto, con infinite e ridicole precauzioni, dopo aver fatto sgombrare tutte le vie, che dal Tribunale conducono al Carcere dei Domenicani, tornavo alla prigione, con un anno di meno nella mia vita libera. Ciò avevano almeno decretato nella loro sentenza i giudici del Tribunale di Livorno. Per una raffinatezza tutta medioevale di crudeltà la R. Procura rifiutò a mia sorella, vedova appena

sposa, il permesso di potermi visitare e parlarmi, fosse pure a traverso le sinistre inferriate del parlatorio, dopo i colpi di tanta sventura. A ciò allude la 15a strofa della poesia. Ognuno comprenderà, riflettendo al momento disperato in cui il triste matrimonio si strinse, il significato della espressione vergine e vedova del verso ventunesimo. Due Novembre. — Pag. 140. — La poesia che porta questo titolo fu scritta nel penitenziario di S. Giorgio, precisamente nella notte dei morti, e se non temessi mi si volesse imputare di far su tale argomento della lugubre retorica, sarei per accennare alla tetraggine di quella notte caliginosa, indimenticabile, trascorsa in fantasticherie tristi, mentre il lumicino moribondo crepitava nella lampada, e le campane degli infiniti campanili di Lucca chiamavano i fedeli all’ufficio notturno dei morti. In tale ambiente ed in tale momento furono, alla meglio, tracciate le strofe ora riprodotte. Ciò per spiegare la sconsolata e tetra intonazione di questi versi.


INDICE

  • Prefazione dell’editore Pag. 5 -7
  • Dedica dell’Autore » 9
  • Prefazione dell’Autore » 11 -32
  • Cuique » 33 34
  • L’Arresto » 35 -38
  • I Domenicani » 39
  • La Sveglia » 40
  • L’ Aria » 41
  • La Visita » 42
  • Il Parlatorio » 43
  • Santa Giulia » 44 -46
  • La Messa » 47
  • La Fruga » 48
  • La Cella » 49
  • Il Transito » 50
  • Il silenzio » 51
  • Pensiero Ribelle » 52 -53
  • Uxoricidio » 54
  • Suicidio » 55» 56 -57
  • Nostalgia » 58 -59
  • Libertas » 60 -61
  • Leitmotive » 62 -63
  • Passerotti » 64 -65
  • Campane » 66
  • Perchè » 67
  • Odio » 68 -70
  • Afa Pag. 71 -72
  • A mio padre
  • Saluto
  • Fuga » 73 -74
  • Sogno » 75 77
  • Incubo » 78 79
  • Manette » 80 82
  • Triste viaggio » 83 85
  • San Giorgio » 86
  • Ira 105
  • Messaggio » 106 -107
  • Nenie: I. — II. -III. . pagg.
  • Il canto della Prigione 97-98 99 100 -101 Pag. 103 104
  • Giustizia
  • Insonnia

PARTE SECONDA

  • Intermezzo funebre Pag. 115
  • I » 117
  • II » 118-119
  • III. » 120 -122
  • IV » 123-124
  • V » 125 -128
  • VI » 129-132
  • VII » 133-134
  • Pensées » 135 -136
  • Condanna » 137 -139
  • Due Novembre » 140 -143
  • Và » 144 -145
  • Note alle Prigioni » 147 -160
  • Note agli intermezzi funebri » 161 -166