Platone in Italia/XII. Di Cleobolo a Speusippo
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XII
Di Cleobolo a Speusippo
[Musica, ginnastica, bagni, modo di vestire dei pitagorici — Come educhino i giovanetti — Prove a cui li sottopongono — Parallelo di queste con le prove dei misteri eleusini — Probabile primitiva ragione di esistere di questi ultimi — Solo scopo delle prove dei pitagorici: l’abito e l’esercizio della virtú — Lunga durata di esse e loro efficacia — Stoltezza non aver adottato in tutte le cittá l’istituto di Pitagora; scelleraggine averlo distrutto in Italia — Decadenza del pitagorismo — Clinia — Concetto pitagorico del giuramento e dei piaceri carnali — La «giornata» di un pitagorico — Frugalitá dei pitagorici — Reputano dannoso il vino.]
In quei musei1, de’quali ti ho giá scritto, vi sono stadi, giardini, boschetti, portici, sale per la musica. I pittagorici reputati la musica la prima tra le arti purificatrici delPanima e la ginnastica la prima tra le arti conservatrici del corpo. Amano molto i bagni e raccomandati moltissimo la nettezza. Il loro vestire è lontano da ogni lusso, ma di un’estrema decenza. Per l’ordinario la loro veste è bianca, e dicesi che Pittagora soleva portarla di line.
Taluni de’ pittagorici convivon entro lo stesso museo. Altri vi vanno ad udir le loro lezioni o a conferir coi medesimi {ter affari.
La cura principale de’ primi è l’educazione de’ giovani, che dai genitori si soglion loro consegnare appena toccano l’adolescenza, e che vivon insiem con essi entro lo stesso museo. Tu avrai per certo udito ragionare di quelle prove, alle quali questi giovani si sottopongono, e che sono meno terribili, ma piú difficili e piú efficaci delle prove che si usano ne’ nostri misteri.
Basta ricordarsi di esser in Eieusi, nell’Attica, per non spaventarsi alle apparenze del tartaro, dell’erebo, degli incendi, delle morti, di tutti gli altri spettacoli che ti presentano nel tempio di Cerere: spettacoli i quali potcvan produrre qualche utile effetto, quando i misteri furono inventati; quando i tempi eran feroci ed i delitti facili e spesso impuniti; quando, mancando ogni forza ed ogni giustizia pubblica, non è improbabile che queste mistiche adunanze abbian servito come di velo alla giustizia privata, che talora ha raddrizzati molti torti, talora moltissimi ne ha commessi. Allora il primo merito, che richiedevasi in chiunque voleva esser ammesso in tali adunanze, era il coraggio2. Oggi ogni illusione è svanita, e l’uomo, se ha senno, non ha bisogno di coraggio. E cosí si snaturano e diventano inutili tutte le istituzioni de’ tempi troppo antichi.
I pittagorici, al contrario, ti provali coll’esercizio di tutte le virtú. Prima di ammetterti, esplorano tutto: moti, passi, parole, tísonomia, genitori; nulla sfugge alle loro indagini. Cilone, altre volte, non fu ammesso, perché apparteneva ad una famiglia troppo prepotente e mostrava, nel suo volto, ne’ suoi atti, nella sua voce, un cuore crudele ed uno spirito vilmente soverchiatore. Non è vero ciò che taluni han detto, che, entrando nell’ordine, fosse necessitá rinunciare a tutt’ i suoi beni; non è vero neanche che si debba rinunciare a tutti gli altri legami della vita e della cittá: cose tutte immaginate da quei vili, i quali non conoscono alcuna cosa di mezzo tra il desiderar le ricchezze ed il servire alle medesime. I pittagorici esigono ciò che è piú utile all’umanitá e, nel tempo istesso, piú difficile all’uomo: I>osseder i beni della fortuna senza esserne posseduto. Mollezza, avarizia, orgoglio de’natali, ambizione, loquacitá: ecco ciò che essi ti costringono a deporre. Gii vuole esser ammesso tra loro, deve vestir un cuore nuovo. La piú leggiera oscitanza o ti arresta nel cammino, o ti fa espellere dal collegio; ed allora gli altri ti reputan «morto»3 e ti celebran le esequie.
Si prolungano tali prove per due, tre, quattro, cinque anni, in ragion del profitto che taluno fa neiramore della virtú e della veritá. Or dimmi: dopo le prove de’ nostri «misteri», un uomo rimane colla stessa dose di coraggio che prima aveva: non vediamo noi iniziati egualmente tutti gli ateniesi? Ma, dopo Teseremo di cinque anni di virtú, non ti pare che un uomo debba incominciar veracemente ad amarla?
11 genere umano ha sofferte piú numerose e piú gravi sciagure per la stoltezza e la scelleraggine degli uomini che per le grandi commozioni della natura. Ma, tra tutt’i beni che la stoltezza umana ha impediti, non è il minore quello di non aver adottato in tutte le cittá l’istituto di Pittagora; e. tra i mali che la loro scelleraggine ha cagionati, il massimo è quello di averlo distrutto anche in Italia. Io ho data a mia madre la nuova di esser stato ammesso tra i pitagorici: ho creduto darle la nuova di una felicitá, che la sorte avea concessa al figlio che essa ama. Se io avrò un figlio, chi sa se mai potrá un giorno scriver la stessa nuova a me?
La societá è disciolta. Pochi grandi uomini avvanzano ancora, come torri che vedi sovrastar, distanti, isolate, tra le ruine di una cittá che l’incendio ha consumata. I giovani non amano piú una scienza che non è quella de’ piaceri. Il rigore delle prove si è rallentato. Diodoro fu il primo ad esser ammesso nella societá senza veruna prova4. Oggi, per essere ammesso, ti basta un tenor di vita moderato, una scienza ordinaria ed un pittagorico degno di fede, che ti presenti e colla sua parola ti raccomandi. Io non osava chieder questa grazia a Platone; ma egli ha prevenuto i miei desidèri. M’istruiscono Archita e Clinia.
Tu conosci il primo, perché egli è stato piú volte in Atene. Clinia, vecchio venerabile, compagno un tempo di Filolao e capo, finché non fu distrutto, del collegio pittagorico di Eraclea, scampò a gran pena la vita nella sollevazione di questa cittá; e, ristabilito l’ordine, or passa gli ultimi dei suoi giorni tra i suoi amici in Taranto, sua patria. La sua estrema moderazione di animo è passata in proverbio. Ha tanto rispetto pel nome degli iddíi, che una volta pagò la pena di tre talenti per non giurare5 — I sommi iddii — egli diceva — nulla han di comune con noi uomini picciolissimi. Noi, giurando, chiamiamo in testimonio delle nostre parole la mente universale6. Or è indegno dell’uomo giusto il solo dubbio che le sue parole possati esser dissimili dalla sua mente. — Tu saprai la sua risposta a Proro, l’amico di Aristippo, il quale gli dimandava un giorno qual fosse il tempo piú opportuno per darsi ai piaceri di Venere. — Quando — egli disse — ti parrá tempo di soffrire un gran danno7 —
Oggi, questo vecchio venerabile, piú contento di sé che degli uomini e della fortuna, vive nel museo, in compagnia di due o tre altri amici, tutti, al pari di lui, intenti all’educazione dei giovani. Essi si destano prima che spunti il sole. Loro prima cura è quella di scorrer colla mente tutti i doveri che hanno nel giorno. Indi si uniscono insieme e salutano l’astro, che spande su tutta la natura i benefici piú grandi del suo creatore. Una musica melodiosa accompagna gli inni sacri, che essi stessi han composti per lodare gl’iddii, e scuote l’anima dal torpore del sonno. Piacevoli passeggiate, ragionamenti amichevoli e nel tempo istesso sublimi li occupano nel tempo in cui i loro allievi si esercitano in una ginnastica piú conveniente alla loro etá ed alle forze loro. Segue una colazione frugale, per lo piú di pane, latte, mèle e frutti della terra: di rado vi si vede il vino, che essi credono pericoloso a tutti e dannoso ai giovinetti8. Indi ciascuno adempie ai propri doveri, o d’istruir il popolo, o di decidere le contese, che per l’ordinario i tarantini soglion commettere al loro arbitrio, di metter pace tra le famiglie, ecc. ecc. Un pranzo sano e frugale; un altro moderato esercizio; l’esame di tutto ciò che hanno fatto nel giorno (esame che essi non cessano mai d’inculcare che solo, ben praticato, può portar l’uomo a quella perfezione, da cui pare die la sua inferma natura lo tenga lontano); nuovi inni di lode agli iddíi, de’ quali è dono ed il giorno che hanno vissuto e le virtú che han praticato; un sonno tranquillo, premio della temperanza del corpo e della tranquillitá della mente: eccoti la fine della giornata del savio.
Clinia, tutti li momenti che non deve alla virtú, li dá alla scienza e li passa nella biblioteca, pascendo la mente delle sublimi veritá scoperte da quei grandi che piú non sono. Cosí la fiamma, quando le manca l’alimento terrestre, spicca piú rapido il volo verso il cielo, donde è l’origine sua. (i)
- ↑ Questo nome dá qui Cleobolo al tempio delle muse.
- ↑ Il nome che si dava agli associati era «sodes». L’etimologia di questo nome è «si audes». Vedi VICO, De uno universi iuris principio et fine uno.
- ↑ «Morto» chiamavano i pittagorici chiunque non era della loro societá. Essi non conoscevano altra vita che la virtú! De’ riti pittagorici parlan tutti gli scrittori. È superfluo citarli. Nell Appendice I si troverá la ragione per cui il nostro autore dissente in taluni punti dagli altri
- ↑ BRUKERO, I. c.
- ↑ GIAMBLICO, 33.
- ↑ Questa è l’idea che CICERONE ci narra aver concepita i pittagorici del giuramento.
- ↑ PLUTARCO, Symposium, III, 6.
- ↑ PLATONE, De legibus.