Pierre e Jean/V
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Ma il suo corpo, agitato da un sonno inquieto, riuscì a rilassarsi per non più di un’ora o due. Quando si svegliò al buio soffocante della sua camera risentì, prima ancora che i pensieri lo riprendessero, quel senso di oppressione, quel malessere che lascia in noi il dolore dopo aver dormito. Come se la disgrazia che ci ha colpiti soltanto il giorno prima, durante il sonno sia entrata nel nostro corpo lasciandolo pesto e indolenzito come una febbre.
Immediatamente gli tornò il ricordo e si levò a sedere sul letto. Allora rifece con lentezza tutti i ragionamenti che gli avevano torturato il cuore sul molo, mentre urlavano le sirene. Più rifletteva, più era sicuro.
Si sentiva trascinato dalla sua logica verso un’intollerabile certezza, come da una mano che attiri e strangoli.
Aveva sete, aveva caldo; il cuore gli batteva. Si alzò per aprire la finestra e respirare e, quando fu in piedi, un lieve rumore gli giunse attraverso la parete.
Jean dormiva tranquillo e russava leggermente.
Dormiva, lui! Non aveva presentito niente, non aveva indovinato niente! Un uomo che aveva conosciuto la loro madre gli lasciava tutto il suo patrimonio ed egli prendeva il denaro, trovando la cosa giusta e normale.
Dormiva, ricco e soddisfatto, senza sapere che suo fratello ansimava di dolore e d’angoscia. E sentì montare dentro di sé una gran rabbia, contro quel russare spensierato e contento.
Il giorno prima, Pierre avrebbe bussato alla sua porta, sarebbe entrato e, sedutosi accanto al letto, gli avrebbe detto, nello smarrimento del risveglio improvviso: «Jean, tu non devi accettare questa eredità che potrebbe domani far nascere sospetti sul conto di nostra madre e disonorarla.»
Ma oggi non poteva più parlare, non poteva dire a Jean che non lo credeva figlio del loro padre. Bisognava, ora, serbare, seppellire in se stesso quella vergogna che aveva scoperta, nascondere a tutti la macchia che lui aveva visto ma che nessuno doveva vedere, neppure suo fratello, in particolar modo suo fratello.
Non pensava più, ora, alle chiacchiere vane della gente. Avrebbe voluto che tutti accusassero sua madre, pur di saperla innocente lui, solo lui! Come avrebbe potuto sopportare di vivere accanto a lei, ogni giorno, e credere, guardandola, che avesse concepito suo fratello per l’abbraccio di un estraneo?
Eppure, com’era calma e serena; come sembrava sicura di se stessa! Era possibile che una donna come lei, pura e onesta, potesse cedere, presa dalla passione, senza che, più tardi, nulla apparisse dei suoi rimorsi, dei ricordi, dei suoi turbamenti?
Ah, i rimorsi! i rimorsi! Forse, in passato, nei primi tempi, essi l’avevano torturata; ma poi erano svaniti come tutto svanisce. Sicuramente aveva pianto la sua colpa e, a poco a poco, l’aveva quasi dimenticata. Tutte le donne, non posseggono, forse, quella prodigiosa facoltà di dimenticare, che fa loro riconoscere appena, passato qualche anno, l’uomo al quale hanno dato la bocca e tutto il loro corpo da baciare? Il bacio colpisce come il fulmine, l’amore passa come un uragano; poi la vita, di nuovo, si calma come il cielo e ricomincia come prima. Ci ricordiamo, forse, di una nuvola?
Pierre non poteva più rimanere nella sua camera. Quella casa, la casa di suo padre, l’opprimeva. Egli sentiva il tetto pesargli sulla testa e i muri schiacciarlo. Aveva una gran sete, accese la candela per andare a bere un bicchiere d’acqua fresca al rubinetto della cucina.
Discese i due piani, poi, mentre risaliva con la brocca piena, sedette, in pigiama, su un gradino della scala in mezzo a una corrente d’aria e bevve, dalla brocca, lunghi sorsi, come un corridore affannato. Quand’ebbe finito di muoversi, il silenzio di quella casa lo impressionò; allora cominciò a distinguere, uno per uno, i più lievi rumori. Dapprima l’orologio della sala da pranzo, il cui battito sembrava diventare più forte di secondo in secondo. Poi udì di nuovo russare: un russare di vecchio, breve, penoso e duro, quello di suo padre, certamente, e fu agghiacciato dall’idea, che sembrava sorgere in lui soltanto in quell’attimo, che quei due uomini che russavano nella stessa casa, il padre e il figlio, non erano niente l’uno per l’altro! Nessun vincolo, neppure il più fragile, li univa ed essi non lo sapevano! Si parlavano affettuosamente, si abbracciavano, godevano e si commovevano insieme per le stesse cose, come se nelle loro vene corresse lo stesso sangue. Ma due persone nate ai poli opposti della terra non potevano essere più estranee l’una all’altra, di quel padre e di quel figlio. Credevano di volersi bene perché tra loro era cresciuta una menzogna. Una menzogna creava quell’amor paterno e quell’amor filiale, una menzogna che era impossibile svelare e che nessuno avrebbe mai conosciuta, all’infuori di lui, il figlio vero.
Eppure, eppure, se si fosse sbagliato? Come saperlo? Ah, se ci fosse stata una somiglianza, anche leggera, tra suo padre e Jean, una di quelle somiglianze misteriose, che vanno dai trisnonni ai pronipoti, mostrando che un’intera razza discende direttamente dal medesimo amplesso. A lui, medico, sarebbe bastato così poco per riconoscerla; la forma della mascella, la curva del naso, la distanza tra gli occhi, la natura dei denti o dei peli, o meno ancora, un gesto, un’abitudine, un modo di fare, un gusto ereditato, un segno qualunque molto caratteristico per un occhio esercitato.
Cercava e non ricordava niente, proprio niente. Ma aveva guardato male, osservato male, perché non aveva alcuna ragione per scoprire quegli impercettibili segni. Si alzò per rientrare in camera sua e si avviò lentamente per le scale, sempre pensieroso. Davanti alla porta del fratello si fermò di colpo e tese la mano per aprirla. Era nato in lui un bisogno imperioso di veder subito Jean, di guardarlo a lungo, di sorprenderlo durante il sonno quando il volto è tranquillo e i lineamenti distesi riposano ed è scomparsa la smorfia della vita. Così avrebbe afferrato il segreto della sua fisionomia e se fosse esistita una qualche somiglianza non gli sarebbe sfuggita. Ma se Jean si fosse destato, che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe spiegato la sua presenza lì? Immobile, le dita contratte sulla maniglia, cercava una ragione, un pretesto. Ricordò d’un tratto che una settimana prima aveva prestato a suo fratello un flaconcino di laudano per il mal di denti. Poteva soffrire lui quella notte e essere venuto a chiederne la restituzione.
Entrò dunque con passo furtivo come un ladro.
Jean, con la bocca socchiusa, dormiva di un sonno animalesco e profondo. La barba e i capelli biondi formavano una macchia d’oro sulla federa bianca. Non si svegliò; ma smise di russare.
Chino su lui, Pierre lo contemplava avidamente. No, quel giovanotto non rassomigliava a Roland. E, per la seconda volta, nella sua mente, si riaffacciò il ricordo del piccolo ritratto scomparso di Maréchal. Doveva trovarlo. Forse, vedendolo, non avrebbe avuto più dubbi.
Jean si mosse, disturbato, indubbiamente, dalla sua presenza o dalla luce della candela che gli attraversava le palpebre. Allora il dottore indietreggiò in punta di piedi verso la porta, che chiuse senza far rumore; poi rientrò in camera sua; ma non tornò a letto.
Il giorno fu lento a spuntare. Le ore battevano una dopo l’altra all’orologio della sala da pranzo, con un suono lento e grave, come se quel piccolo meccanismo avesse ingoiato una campana di cattedrale. I rintocchi salivano nella scala vuota, attraversavano i muri e le porte, andavano a morire in fondo alle camere, nelle orecchie sorde dei dormienti.
Pierre s’era messo a camminare su e giù, dal letto alla finestra. Che cosa avrebbe fatto? Si sentiva troppo sconvolto per trascorrere quella giornata in famiglia. Voleva rimanere ancora solo, almeno fino al giorno dopo, per riflettere, calmarsi, fortificarsi prima di riprendere la vita d’ogni giorno.
Sarebbe andato a Trouville, a veder la spiaggia brulicante di folla. Quella vista lo avrebbe distratto, avrebbe mutato il corso dei suoi pensieri, gli avrebbe dato il tempo di abituarsi alla cosa orribile che aveva scoperta.
Appena spuntò l’alba, si lavò e si vestì. La nebbia si era dissipata, il tempo era bello, molto bello. Il battello per Trouville partiva alle nove e il dottore pensò che prima di partire doveva andare a salutare e abbracciare sua madre. Attese il momento in cui di solito lei si alzava, poi discese. Quando fu davanti alla sua porta, il cuore prese a battergli così forte, che dovette fermarsi per respirare. La sua mano sulla maniglia era molle e tremante, incapace anche del piccolo sforzo di girarla per entrare. Bussò. La voce della madre chiese:
«Chi è?»
«Io, Pierre.»
«Che cosa vuoi?»
«Salutarti; vado a Trouville con alcuni amici, a passare la giornata.»
«Sono ancora a letto...»
«Bene; allora non ti disturbo. Ti darò un bacio al mio ritorno, questa sera.»
Sperò di poter partire senza vederla, senza doverle dare quel bacio falso che gli ripugnava in anticipo.
Ma lei rispose:
«Un momento, ti apro. Aspetta che io sia ritornata a letto.»
Egli udì i piedi nudi sul pavimento, poi il rumore della catenella. E poco dopo lei disse:
«Entra.»
Egli entrò. La madre era seduta sul letto, al suo fianco Roland, con un fazzoletto sul capo e rivolto verso il muro, continuava imperterrito a dormire. Niente avrebbe potuto svegliarlo a meno di scuoterlo fino a staccargli le braccia. Nei giorni di pesca, quando il marinaio Papagris suonava alla porta all’ora fissata, la domestica aveva l’incarico di strappare il padrone da quella specie di catalessi.
Pierre, avvicinandosi al letto, guardava la madre, e, improvvisamente, gli parve di non averla mai vista.
Lei gli porse le guance ed egli vi depose due baci; poi sedette sopra una sedia bassa.
«L’hai decisa ieri, questa gita?» domandò.
«Sì; ieri sera.»
«Ritorni per l’ora di pranzo?»
«Non so ancora; ad ogni modo non aspettatemi.»
La esaminava con una curiosità stupefatta. Era sua madre, quella donna! Quel volto visto dall’infanzia, da quando il suo occhio era stato capace di distinguere, quel sorriso, quella voce così nota, così familiare, gli apparivano bruscamente nuovi e diversi da come erano stati per lui fino a quel momento. Ora capiva che, amandola, non l’aveva mai guardata. Eppure era lei ed egli non ignorava nessuno dei più piccoli particolari del suo viso; ma li vedeva chiaramente per la prima volta. La sua attenzione ansiosa, scrutando quel viso così amato, glielo rivelava diverso: una fisionomia che egli non aveva mai scoperta.
Si alzò per uscire, poi, cedendo improvvisamente al bisogno irresistibile di sapere che gli stringeva il cuore dal giorno avanti:
«Senti,» disse, «mi sembra di ricordare che, una volta, a Parigi, avevamo nel salotto un piccolo ritratto di Maréchal.»
Lei esitò un secondo o due, così almeno a lui parve, poi rispose:
«Ma sì.»
«E dov’è, adesso?»
Lei avrebbe potuto rispondere più presto:
«Quel ritratto... aspetta... non so bene... Forse lo avrò messo nella mia scrivania.»
«Mi faresti un piacere se lo cercassi...»
«Sì, lo cercherò... Perché lo vuoi?»
«Oh, non è per me! Ho pensato che sarebbe molto naturale regalarlo a Jean, gli farà piacere.»
«Hai ragione, sì è una buona idea. Lo cercherò appena mi sarò alzata.»
E lui se ne andò.
Era una giornata serena, senza un alito di vento. La gente, per le vie, sembrava allegra: i commercianti se ne andavano per i loro affari, gli impiegati si recavano negli uffici, le ragazze nei negozi. Alcuni canticchiavano, tutti allegri per la bella giornata.
I passeggeri s’imbarcavano già sul battello di Trouville, Pierre sedette a poppa su una panca di legno.
Egli diceva fra sé:
«È rimasta turbata alla mia richiesta del ritratto o semplicemente sorpresa? L’ha perduto o nascosto? Sa dov’è o no? E se l’ha nascosto, perché l’ha fatto?»
E la sua mente, seguendo il solito processo, di deduzione in deduzione, concluse: il ritratto dell’amico, dell’amante, era rimasto nel salotto bene in vista fino al giorno in cui la moglie o la madre si era accorta che quel ritratto assomigliava a suo figlio. Certamente da lungo tempo, lei spiava quella somiglianza e quando l’ebbe scoperta, per averla vista nascere, capì che tutti prima o poi avrebbero potuto notarla. Così una sera aveva tolto dalla mensola del camino quella pericolosa testimonianza e non osando distruggerla l’aveva nascosta.
E Pierre ricordava ora benissimo che quella miniatura era sparita molto tempo prima della loro partenza da Parigi. Era sparita, ne era sicuro, quando la barba di Jean aveva cominciato a crescere, rendendolo ad un tratto somigliante al giovane biondo che sorrideva dalla cornice.
Il movimento del battello che partiva turbò e allontanò i suoi pensieri, allora si alzò in piedi e guardò il mare. Il battellino uscì dal molo, girò a sinistra e soffiando, ansimando, fremendo si diresse verso la costa che si distingueva in lontananza nella nebbia del mattino. Di tanto in tanto la vela rossa di una barca da pesca, immobile sul mare calmo, pareva una roccia che emergesse dall’acqua e la Senna scendendo da Rouen sembrava un largo braccio di mare che separasse due terre vicine.
In meno di un’ora il battello giunse al porto di Trouville. Era l’ora del bagno e Pierre si recò sulla spiaggia. Da lontano pareva un lungo giardino pieno di fiori sgargianti. Sulla grande duna di sabbia gialla, dal molo fino alle Rocce Nere, ombrellini di ogni colore, cappellini di tutte le fogge, abiti variopinti, a gruppi davanti alle cabine, o in fila lungo la riva, o sparsi qua e là, parevano veramente enormi mazzi di fiori in un immenso prato. E il brusio indistinto, vicino e lontano delle voci nell’aria leggera, i richiami, le grida dei bambini che facevano il bagno, le limpide risate femminili confuse alla lievissima brezza creavano un rumore continuo e dolce.
Pierre camminava in mezzo a quella gente, più smarrito, isolato, immerso nel suo torturante pensiero, così separato dagli altri di quanto non sarebbe stato se l’avessero gettato in mare dal ponte di una nave a cento leghe al largo. Sfiorava quelle persone, udiva, senza ascoltare, qualche frase e vedeva, senza guardare, gli uomini che parlavano alle donne e le donne che sorridevano agli uomini.
Ma, all’improvviso, come se si svegliasse, li vide distintamente e provò un senso d’odio contro di loro, perché gli parevano felici e contenti.
Camminava sfiorando i gruppi, girava loro intorno, preso da nuovi pensieri. Tutti quegli abiti multicolori che coprivano la sabbia come fiori, quelle belle stoffe, gli ombrellini vistosi, la grazia fittizia dei corpi inguainati, tutte quelle ingegnose invenzioni della moda, dalle scarpette minuscole ai cappelli stravaganti, la seduzione del gesto, della voce e del sorriso, la fatuità, insomma, messa in mostra su quella spiaggia, gli apparivano all’improvviso come un’immensa fioritura della civetteria femminile. Tutte quelle donne agghindate volevano piacere, sedurre e tentare qualcuno. Si erano fatte belle per gli uomini, per tutti gli uomini, tranne che per il marito, che non avevano più bisogno di conquistare. S’eran fatte belle per l’amante d’oggi e per quello di domani, per lo sconosciuto incontrato, osservato e, forse, atteso.
E gli uomini seduti accanto a loro, gli occhi negli occhi, che parlavano con la bocca vicino alla bocca, le chiamavano, le desideravano, davan loro la caccia come ad una selvaggina agile e sfuggente, anche se pareva così vicina e così facile. Quella vasta spiaggia, dunque, non era altro che un mercato d’amore, dove alcune si vendevano, altre si donavano, queste mercanteggiavano le loro carezze e quelle le promettevano soltanto. Tutte quelle donne pensavano a una sola cosa: offrire e far desiderare il loro corpo già dato, già venduto, già promesso ad altri uomini. Ed egli pensò che, dappertutto, era sempre la stessa.
Sua madre aveva fatto come le altre, ecco tutto! Come le altre? - No! Esistevano eccezioni e molte, molte! Quelle ch’egli vedeva intorno a sé, ricche, pazze, in cerca d’amore, appartenevano, in fondo, alla società elegante e mondana o a quella che si vende, perché le donne oneste chiuse nella loro casa non s’incontravano sulle spiagge frequentate da legioni di sfaccendati.
Il mare saliva, respingendo a poco a poco verso la città le prime file di bagnanti che si erano avvicinati troppo all’acqua. Si vedeva gente alzarsi alla svelta e fuggire, portando via i seggiolini, davanti alle onde gialle che avanzavano con in cima un piccolo merletto di spuma.
Anche le cabine a ruota trainate da un cavallo risalivano e sulla passeggiata lungo la riva si snodava una processione continua fitta e lenta di folla elegante su due file contrarie che si sforavano e si mescolavano. Pierre, nervoso, esasperato per quei contatti, fuggì, s’inoltrò nella città e si fermò a far colazione in una semplice osteria al limitare dei campi. Al caffè si distese su due sedie, e poiché non aveva dormito la notte s’assopì all’ombra di un tiglio. Si svegliò dopo qualche ora e si accorse che era ora di tornare a prendere il battello. Si mise in cammino colto da un improvviso indolenzimento che l’aveva colpito mentre sonnecchiava. Ora voleva tornare a casa, voleva sapere se sua madre aveva trovato il ritratto di Maréchal.
Avrebbe parlato lei per prima o si sarebbe dovuto chiederglielo di nuovo? In questo caso era chiaro che aveva un motivo per non mostrare il ritratto.
Ma quando fu rientrato nella sua camera, esitò prima di scendere per la cena. Il suo cuore gonfio non aveva avuto ancora il tempo di calmarsi. Tuttavia si decise e comparve in sala da pranzo, quando gli altri stavano mettendosi a tavola.
I loro volti erano animati da espressioni di gioia.
«Ebbene?» disse Roland. «Come vanno i vostri acquisti? Non voglio veder niente prima che tutto sia a posto, io!»
«Ma sì; vanno bene,» rispose la moglie. «Soltanto bisogna pensarci bene per non commettere errori. Siamo in difficoltà per la scelta dei mobili.»
Con Jean aveva passato la giornata a visitare negozi di tappezzieri e di mobilieri. Voleva stoffe ricche, appariscenti, che colpissero l’occhio. Il figlio, invece, desiderava qualche cosa di semplice e distinto. E così, di fronte a tutti i campioni proposti, avevano ripetuto, l’un l’altra, le proprie ragioni. Lei sosteneva che il cliente doveva essere impressionato, doveva provare, entrando nella sala d’aspetto, il senso della ricchezza.
Jean, invece, che desiderava solo una clientela elegante e ricca, voleva conquistare le persone distinte con il suo gusto discreto e sicuro.
E la discussione, che era durata tutta la giornata, riprese alla minestra. Roland non aveva opinione. Ripeteva:
«Non voglio sentir parlare di niente. Andrò a vedere quando tutto sarà finito.»
La signora Roland chiese consiglio al figlio maggiore:
«Vediamo un po’ Pierre: tu che ne pensi?»
Egli aveva i nervi talmente eccitati che aveva voglia di rispondere con un’imprecazione. Disse, tuttavia, con un tono secco fremente di sdegno:
«Oh, io sono perfettamente del parere di Jean. A me piace soltanto la semplicità. La semplicità nel gusto è come l’onestà nel carattere.»
La madre riprese:
«Non dimenticarti che viviamo in una città di commercianti, dove il buon gusto non s’incontra per strada.»
Pierre rispose:
«E che importa? È forse, una ragione per imitare gli ignoranti? Se i miei concittadini sono stupidi o disonesti, devo forse fare come loro? Una donna se le sue vicine hanno degli amanti non si metterà a peccare per il gusto di imitarle?»
Jean si mise a ridere:
«Fai dei paragoni con argomenti che sembran presi dalle massime d’un moralista.»
Pierre non disse niente. La madre e il fratello ricominciarono a parlare di stoffe e di poltrone.
Egli li guardava come aveva guardato la madre la mattina, prima di recarsi a Trouville; li guardava da estraneo che osservi e gli pareva, infatti, di essere entrato improvvisamente in una famiglia sconosciuta.
Suo padre, in particolar modo, lo sorprendeva. Quell’omone placido, contento e ingenuo era suo padre! No, no, Jean non gli rassomigliava in nulla.
La sua famiglia! Da due giorni una mano sconosciuta e malefica, la mano d’un morto, aveva strappato e infranto, ad uno ad uno, tutti i vincoli che la tenevano unita. Era la fine; la rottura. Non più madre, perché non poteva più amarla, venerarla col rispetto assoluto, tenero e pio del quale ha bisogno il cuore d’un figlio; non più fratello, perché quel fratello era figlio d’un estraneo. Gli rimaneva soltanto un padre, quell’omone che egli, senza volerlo, non amava.
E, ad un tratto, domandò: «Di’, mamma; hai trovato quel ritratto?»
Lei spalancò gli occhi, sorpresa:
«Quale ritratto?»
«Il ritratto di Maréchal.»
«No... cioè sì... Non l’ho trovato, ma mi sembra di sapere dove sia.»
«Che cosa?» domandò Roland.
Pierre gli disse:
«Un ritrattino di Maréchal, che, una volta, era in salotto a Parigi. Ho pensato che a Jean farebbe piacere averlo.»
Roland esclamò:
«Ah sì, sì: ricordo benissimo. L’ho visto, anzi, verso la fine della settimana scorsa. Tua madre l’ha tirato fuori dalla sua scrivania, nel riordinare le sue carte, giovedì o venerdì. Te lo ricordi, Louise? Mi stavo radendo la barba, quando l’hai preso da un cassetto e l’hai messo su di una sedia accanto a te, con un mucchio di lettere che hai bruciato per metà. Eh? Non è strano che tu abbia avuto fra le mani quel ritratto due o tre giorni appena prima dell’eredità di Jean? Se ci credessi, direi che quello era un presentimento!»
La signora Roland rispose, tranquilla:
«Sì, sì: so dov’è. Andrò subito a prenderlo.»
Dunque, aveva mentito! Aveva mentito, rispondendo, quella mattina, a suo figlio che le chiedeva dove fosse finito quel ritratto: «Non so bene... forse l’avrò messo nella mia scrivania.»
E, invece, l’aveva visto, toccato, guardato alcuni giorni prima e poi l’aveva nascosto di nuovo nel cassetto segreto, insieme con alcune lettere, le lettere di lui.
Pierre guardava la madre, aveva mentito. La guardava con una collera esasperata di figlio tradito, derubato nel suo affetto sacro e con una gelosia di uomo, per lungo tempo cieco, il quale scopra alla fine un vergognoso tradimento. Se lui, suo figlio, fosse stato il marito di quella donna, la avrebbe afferrata per i polsi, per le spalle o per i capelli e l’avrebbe buttata per terra, schiaffeggiata, pestata! E non poteva dir niente, non far veder niente, non rivelare niente. Era suo figlio, non aveva niente da vendicare, non era stato tradito, lui.
Ma sì; lei lo aveva tradito nella sua tenerezza, nel suo devoto rispetto. Lei doveva essere, per lui, irreprensibile, come tutte le madri devono essere per i loro figli. Il furore che lo agitava rasentava quasi l’odio, perché la sentiva più colpevole verso di lui che verso lo stesso suo padre.
L’amore tra uomo e donna è un patto volontario nel quale chi manca è colpevole soltanto di perfidia; ma, quando la donna diventa madre, il suo dovere è molto maggiore, perché la natura le assegna una razza. Se viene meno allora, è vile, indegna, infame.
«Fa lo stesso,» disse a un tratto Roland, allungando le gambe sotto la tavola come soleva fare ogni sera per centellinare il suo bicchierino di ribes. «Non è brutto vivere senza far niente quando si ha un po’ di denaro. Spero che Jean ci offrirà dei pranzi extra, ora. Tanto peggio, se qualche volta mi verrà il mal di stomaco.»
Poi, rivolgendosi alla moglie:
«Adesso che hai finito di mangiare, va’ a prendere quel ritratto. Farà piacere anche a me di rivederlo.»
Lei si alzò, prese una candela ed uscì. Poi, dopo un’assenza che a Pierre parve lunga, sebbene non fosse durata neppure tre minuti, la signora Roland tornò, sorridente, tenendo per il gancio una cornice dorata.
«Ecco:» disse, «l’ho trovato quasi subito.»
Il dottore, per il primo, aveva allungato la mano. Egli prese il ritratto e lo esaminò un po’ da lontano, tendendo un braccio. Poi, sentendo su di sé lo sguardo della madre, alzò lentamente gli occhi sul fratello per fare il confronto. Trascinato dalla sua violenza, fu sul punto di dire: «To’: somiglia a Jean.» Ma, se non ebbe il coraggio di pronunciare quelle parole pericolose, manifestò il proprio pensiero paragonando il volto di suo fratello a quello dipinto.
Certo, essi avevano tratti comuni: la stessa barba, la stessa fronte; ma nulla di così uguale da poter dire: «Ecco il padre, ed ecco il figlio.» Si trattava, piuttosto, di un’aria di famiglia, un’affinità di fisionomie animate dallo stesso sangue. Ma, per Pierre, più decisivo della somiglianza, fu il fatto che sua madre s’era alzata, aveva voltato le spalle e fingeva di chiudere, con troppa lentezza, lo zucchero e il ribes nella credenza.
Aveva capito che lui sapeva, o per lo meno, che sospettava!
«Dammelo», diceva Roland.
Pierre porse la miniatura a suo padre, che avvicinò la candela per veder meglio. Poi mormorò con voce commossa:
«Poveretto! E pensare che, quando lo abbiamo conosciuto, era così. Perdiana! Come si fa presto ad andare! Era un bell’uomo, ad ogni modo, allora, e così gentile; non è vero, Louise?»
Poiché la moglie non rispondeva, continuò:
«E che buon carattere! Non l’ho mai visto di cattivo umore... Ed ecco: è finita. Non rimane più nulla di lui... tranne ciò che ha lasciato a Jean. Insomma, si può giurare che è stato un amico buono e fedele fino all’ultimo. Neppure in punto di morte ci ha dimenticati.»
Jean, a sua volta, tese la mano per prendere il ritratto. Lo contemplò alcuni istanti, poi disse, con rimpianto:
«Io non lo riconosco affatto. Lo ricordo solo con i capelli bianchi.»
E restituì la miniatura alla madre. Lei vi gettò uno sguardo rapido, timoroso, che distolse subito; poi con voce naturale:
«È tuo, adesso, Jeannot, tu sei il suo erede. Lo porteremo nel tuo nuovo appartamento.»
Ed entrando in salotto, depose la miniatura sul camino, accanto all’orologio a pendolo, dov’era una volta.
Roland caricava la pipa, Pierre e Jean accesero le sigarette. Di solito fumavano, l’uno passeggiando su e giù per la stanza, l’altro sprofondato in poltrona, con le gambe incrociate. Il padre si metteva sempre a cavalcioni sopra una sedia e sputava da lontano nel caminetto.
La signora Roland, su una seggiolina bassa, presso un tavolino che reggeva una lampada, ricamava, lavorava a maglia o marcava della biancheria.
Quella sera cominciava un ricamo destinato alla camera di Jean. Era un lavoro difficile e complicato, che all’inizio esigeva tutta la sua attenzione. Di tanto in tanto, tuttavia, il suo occhio che contava i punti, si alzava e andava, rapido e furtivo, verso il ritrattino del morto appoggiato all’orologio a pendolo. E il dottore, che misurava lo stretto salotto in quattro o cinque passi, con le mani dietro la schiena e la sigaretta tra le labbra, incontrava ogni volta lo sguardo della madre.
Sembrava che si spiassero, che una lotta fosse stata dichiarata tra loro e un malessere doloroso, un malessere insostenibile stringeva il cuore di Pierre. Egli pensava, torturato e, tuttavia, soddisfatto: «Come deve soffrire in questo momento, se sa che ho indovinato il suo segreto!» E, ogni volta che arrivava vicino al caminetto, si fermava alcuni secondi a contemplare la testa bionda di Maréchal, per mostrare chiaramente che un pensiero fisso lo ossessionava. E quel piccolo ritratto, non più grande di una mano aperta, sembrava un essere vivo, cattivo, temibile, entrato all’improvviso in quella casa e in quella famiglia.
Ad un tratto risuonò il campanello della porta di strada. La signora Roland, sempre così calma, sussultò in modo che fu chiaro al dottore il suo nervosismo.
Poi disse: «Dev’essere la signora Rosémilly.» E il suo sguardo ansioso si levò ancora una volta verso il caminetto.
Pierre comprese o credette di comprendere il suo terrore e la sua angoscia. Lo sguardo delle donne è penetrante, la loro mente agile e inoltre sono sospettose. Quando la persona che stava per entrare avrebbe scorto quella miniatura, mai vista prima, forse, avrebbe scoperto la somiglianza tra quel volto e il volto di Jean. Allora avrebbe saputo e indovinato tutto! Egli ebbe paura, una paura improvvisa e orribile che quella vergogna fosse svelata e, voltandosi, mentre l’uscio s’apriva, prese il piccolo dipinto e lo infilò sotto l’orologio a pendolo, senza che suo padre e suo fratello se ne accorgessero.
E, quando incontrò di nuovo gli occhi della madre, gli parvero mutati, torbidi e stralunati.
«Buon giorno,» diceva la signora Rosémilly, «vengo a bere una tazza di tè con voi.»
Ma, mentre tutti le si facevano intorno chiedendole come stava, Pierre scomparve dalla porta rimasta aperta.
Quando si accorsero che non c’era più, si meravigliarono. Jean, seccato temendo che la giovane vedova potesse offendersi, mormorava:
«Che orso!»
La signora Roland osservò:
«Non bisogna fargliene colpa, non sta bene, oggi, ed è anche stanco per la gita a Trouville.»
«Non importa,» riprese Roland, «non è una buona ragione per andarsene come un selvaggio.»
La signora Rosémilly cercò di appianare le cose, affermando:
«Ma no; ma no. È andato via all’inglese... Si fa così, in società, quando si va via presto.»
«Oh,» rispose Jean. «In società, è possibile; ma non si tratta la propria famiglia all’inglese. E mio fratello non fa altro, da qualche tempo.»