Pierre e Jean/III
Questo testo è completo. |
◄ | II | IV | ► |
Il giorno seguente il dottore si svegliò col fermo proposito di far fortuna. Già più volte aveva preso una tale determinazione senza però mai metterla in atto. All’inizio di tutti i suoi tentativi di nuove carriere, la speranza di conquistare rapidamente la ricchezza, aveva sostenuto i suoi sforzi e la sua fiducia fino al primo ostacolo, fino al primo insuccesso che lo portavano a prendere un’altra strada.
Sprofondato nel suo letto, al caldo, meditava. Quanti medici erano diventati milionari in poco tempo! Bastava un briciolo di furberia. Durante i suoi studi aveva potuto giudicare i più celebri professori, ma come li trovava ignoranti! Certo lui valeva quanto loro, se non di più. Se fosse riuscito con un mezzo qualsiasi ad accapparrarsi la clientela elegante e ricca di Le Havre, avrebbe potuto guadagnare con facilità centomila franchi all’anno. E calcolava con precisione i guadagni sicuri. La mattina sarebbe uscito per visitare i malati a casa loro e calcolando una media scarsa di dieci al giorno a venti franchi l’uno, avrebbe realizzato, al minimo, settantaduemila franchi l’anno, o anche settantacinquemila, perché il dieci era una cifra certamente inferiore alla realtà.
Nel pomeriggio avrebbe ricevuto nel suo studio altre dieci persone, in media, a dieci franchi l’una, cioè trentaseimila franchi. Ecco, dunque, centoventimila franchi in cifra tonda. I vecchi clienti e gli amici, ch’egli avrebbe visitato per dieci franchi a casa e per cinque in studio, potevano rappresentare una lieve diminuzione sul totale; ma sarebbe stata compensata dai consulti con altri medici e da tutti i piccoli guadagni inerenti alla professione.
Nulla di più facile da raggiungere con un po’ di abile pubblicità: annunci sul «Figaro» dove si diceva che il corpo scientifico parigino lo seguiva e s’interessava alle «cure sorprendenti» intraprese dal giovane e modesto studioso di Le Havre. E, così, egli sarebbe diventato più ricco del fratello, più ricco e più celebre e contento di se stesso, perché la sua fortuna se la sarebbe creata da sé. E si sarebbe mostrato generoso verso i suoi vecchi genitori, giustamente orgogliosi della sua fama. Non si sarebbe sposato per non avere tra i piedi un’unica donna noiosa; ma avrebbe avuto amanti tra le sue clienti più belle.
Si sentiva tanto sicuro del successo, che balzò dal letto come per afferrarlo subito; e si vestì per andare a cercare in città l’appartamento che doveva fare al caso suo.
Mentre si aggirava per le strade, pensò quanto siano futili le cause che determinano i nostri atti. Da tre settimane avrebbe potuto, anzi dovuto, prendere quella risoluzione, sorta improvvisamente in lui, senza alcun dubbio, in seguito all’eredità del fratello.
Si fermava davanti alle porte dove un cartello indicava un appartamento bello o di lusso da affittare; le indicazioni prive di aggettivi non le guardava neanche.
Visitava gli alloggi con aria di sufficienza, misurava l’altezza dei soffitti, disegnava sul suo taccuino la pianta dei locali, le comunicazioni, la disposizione delle porte, annunciava che era medico e che avrebbe avuto parecchie visite. Le scale dovevano essere ampie e ben tenute e, ad ogni modo, non poteva andare più in su del primo piano.
Dopo aver preso nota di sette o otto indirizzi e scarabocchiato duecento informazioni, tornò a casa per la colazione con un quarto d’ora di ritardo.
Fin dall’ingresso sentì un rumore di piatti. Mangiavano senza di lui. Perché? Non erano mai stati così puntuali, in casa. Si sentì urtato, scontento, perché era un po’ suscettibile. Appena entrato, Roland disse:
«Su, Pierre; sbrigati, perdinci! Sai che alle due dobbiamo andare dal notaio. Non è giornata da perder tempo, questa!»
Il dottore sedette, senza rispondere, dopo aver baciato la madre e stretto la mano al padre e al fratello, poi prese dal vassoio in mezzo alla tavola la costoletta serbata per lui. Era fredda e secca. Doveva essere la più cattiva. Pensò che avrebbero potuto lasciarla nel forno fino al suo arrivo e non perdere la testa al punto da dimenticare completamente l’altro figlio, il maggiore. La conversazione, interrotta dal suo arrivo, fu ripresa al punto in cui l’avevano lasciata.
«La prima cosa che farei,» diceva la signora Roland a Jean, «sarebbe di metter su un appartamento di lusso, in modo da dar nell’occhio; poi mi farei vedere in società, andrei a cavallo e sceglierei una o due cause interessanti da difendere, per mettermi bene in vista al palazzo di giustizia. Vorrei essere una specie d’avvocato dilettante molto ricercato. Grazie a Dio, non sei assillato dal bisogno e, se eserciti una professione, lo fai per non perdere il frutto dei tuoi studi, e poi un uomo non deve mai stare senza far niente.»
Papà Roland, che stava sbucciando una pera, esclamò:
«Perdiana, se fossi in te mi comprerei una bella barca, un cutter del tipo dei nostri ‹piloti›. Con una di quelle andrei fino al Senegal.»
Pierre a sua volta disse la sua. In fin dei conti, il valore morale, il valore intellettuale di un uomo non era certo dato dalla fortuna. Sì, per i mediocri, forse, era causa di degradazione, ma per i forti, oh, per i forti costituiva una leva potente. E di forti, si sa, al mondo ce n’è molti. Se Jean era veramente un uomo superiore, ora che si trovava al riparo dal bisogno lo poteva dimostrare. Ma doveva lavorare cento volte di più di quanto avrebbe fatto in altre circostanze. Non si trattava di pronunciare un’arringa in favore della vedova o l’orfano e intascare molti scudi per una causa vinta o perduta, ma di diventare un eminente giureconsulto, un luminare del diritto!
E aggiunse, concludendo:
«Se avessi denaro io, quanti cadaveri taglierei!»
Papà Roland alzò le spalle:
«Bla, bla! La cosa più sensata nella vita è il passarsela comodamente. Non siamo bestie, ma uomini. Quando si nasce poveri, bisogna lavorare; ebbene, tanto peggio: si lavora! Ma quando si hanno rendite, perbacco, bisognerebbe essere stupidi per sgobbare.»
Pierre rispose sprezzante:
«Abbiamo idee diverse! Io rispetto soltanto la scienza e l’intelligenza, al mondo. Disprezzo tutto il resto.»
La signora Roland cercava sempre di attutire gli urti continui fra padre e figlio; anche questa volta sviò la conversazione e parlò di un assassinio che era stato commesso la settimana precedente a Bolbec-Nointot. Subito l’attenzione dei familiari si rivolse alle circostanze in cui era stato commesso il delitto; e il fascino dell’orrore, il suggestivo mistero che queste azioni sia pur ripugnanti, volgari e vergognose esercitano sulla curiosità umana avvinse anche il loro animo.
Intanto, papà Roland consultava l’orologio ad intervalli. «Bene,» disse, «bisogna mettersi in cammino.»
Pierre sogghignò:
«Non è ancora l’una. Per la verità non era il caso di farmi mangiare la cotoletta fredda.»
«Vieni dal notaio?» chiese la madre.
«Io no; a far che?» rispose lui seccamente, «la mia presenza è perfettamente inutile.»
Jean se ne stava in silenzio, come se la cosa non lo riguardasse. Quando avevano parlato del delitto di Bolbec, egli, come avvocato, aveva espresso alcune idee e tratto qualche considerazione, sui delitti e sui delinquenti. Ora taceva di nuovo, ma la limpidezza dei suoi occhi, il rossore animato del volto e perfino la lucentezza della barba, parevano attestare la sua felicità.
Quando tutti furono usciti, Pierre, di nuovo solo, ricominciò come il mattino la ricerca di appartamenti da affittare. Salì e discese per due o tre ore un’infinità di scale e finalmente scoprì, sul boulevard Francesco I, qualche cosa che andava proprio bene: un ampio ammezzato con due porte su strade diverse, due salotti, una galleria a vetri, dove i malati, in attesa del loro turno, avrebbero potuto passeggiare in mezzo ai fiori, e una deliziosa sala da pranzo rotonda con vista sul mare.
Al momento di fissare l’affitto, il prezzo di tremila franchi lo fermò, perché bisognava pagare in anticipo la prima rata ed egli non aveva niente, neppure il becco d’un quattrino.
Il piccolo patrimonio accumulato da suo padre non superava gli ottomila franchi di rendita e Pierre si rimproverava di aver messo più volte i genitori nell’imbarazzo per le sue lunghe esitazioni nella scelta d’una carriera, per i tentativi sempre abbandonati e per il continuo ricominciare di studi. Se ne andò, dunque, promettendo che avrebbe dato una risposta entro due giorni e gli venne l’idea di chiedere al fratello il primo trimestre o anche il semestre, cioè millecinquecento franchi, non appena Jean fosse entrato in possesso dell’eredità.
«Si tratterà di un prestito di pochi mesi appena,» pensava. «Lo rimborserò forse anche prima della fine dell’anno. È una cosa semplicissima, del resto, e lui sarà contento di farla per me.»
Poiché non erano ancora le quattro ed egli non aveva nulla da fare, assolutamente nulla, andò a sedersi nel giardino pubblico e rimase a lungo su una panchina, senza pensieri, con gli occhi fissi al suolo, avvilito da una stanchezza che diventava angoscia. Da quando era tornato a casa, tutti i giorni precedenti era vissuto a quel modo, ma senza soffrire così crudelmente del vuoto dell’esistenza e della sua inattività. Come aveva passato dunque il suo tempo da quando si alzava a quando andava a letto? Era stato a far niente sulla banchina nelle ore di marea, per le strade, nei caffè, da Marowsko, dovunque. Ed ecco che all’improvviso una simile vita sopportata fino a quel momento gli diventava odiosa, insopportabile. Se avesse avuto un po’ di denaro, con una carrozza avrebbe fatto una lunga passeggiata in campagna. Sarebbe andato lungo i fossati, nelle fattorie all’ombra dei faggi e degli olmi, ma doveva badare perfino al prezzo di un bicchiere di birra o di un francobollo e quei capricci non gli erano permessi. Pensò come sia duro, a trent’anni passati, dover chiedere arrossendo un luigi alla propria madre, e disegnando per terra con la punta del bastone mormorò:
«Per Dio, se avessi dei soldi!»
E il pensiero dell’eredità del fratello entrò di nuovo in lui come una puntura di vespa; ma egli lo ricacciò spazientito per non lasciarsi andare sulla china della gelosia. Dei bambini giocavano intorno a lui nella strada polverosa. Avevano lunghi capelli biondi, l’aria seria e, con compunta gravità, ammucchiavano monticelli di sabbia per poi distruggerli con un calcio. Pierre era in una di quelle tristi giornate in cui si fruga in ogni angolo della propria anima per esplorarne tutte le pieghe.
«Il nostro sgobbare è simile al lavoro di questi ragazzini,» pensava. Poi si domandò se la cosa più saggia nella vita non fosse quella di mettere al mondo due o tre di quei piccoli esseri inutili e guardarli crescere con compiacimento e curiosità! E lo sfiorò il desiderio del matrimonio.
Quando non si è soli non ci si sente più così smarriti. Nei momenti di turbamento e di incertezza sentiamo almeno qualcuno muoversi intorno a noi. È già qualche cosa dare del tu ad una donna, quando si soffre. Pensò allora alle donne. Le conosceva pochissimo, perché aveva avuto soltanto relazioni di quindici giorni al Quartiere latino, relazioni troncate quando il denaro del mese era finito e riallacciate o sostituite il mese seguente. Eppure dovevano esistere creature molto buone, molto dolci e consolanti. Sua madre non era stata la ragione e il fascino del focolare paterno? Come avrebbe voluto conoscere una donna, una vera donna!
Si alzò all’improvviso deciso ad andare a fare una visitina alla vicina di casa, la signora Rosémilly.
Ma tornò bruscamente a sedere. Non gli piaceva, quella donna! Perché? Era troppo piena di buon senso: buon senso comune e basso e poi non preferiva Jean a lui? Quella preferenza, quantunque egli non se lo confessasse in maniera precisa, contribuiva molto alla sua disistima per l’intelligenza della vedova, perché, pur volendo bene a suo fratello, egli non poteva astenersi dal giudicarlo un po’ mediocre e dal ritenersi superiore.
Ad ogni modo, non sarebbe rimasto lì fino a notte e, come la sera precedente, si chiese con ansia: «Che cosa farò?»
Provava adesso un bisogno di tenerezza, di essere abbracciato e consolato. Consolato di che? Non avrebbe saputo dirlo; ma attraversava uno di quei momenti di debolezza e di stanchezza, in cui la presenza, la carezza di una donna, il tocco di una mano, il fruscìo di una gonna, due occhi dolci neri o azzurri sembrano indispensabili, e subito, al nostro cuore.
E gli tornò il ricordo di una camerierina di birreria che, una sera, aveva accompagnato a casa e, di tanto in tanto, aveva rivisto.
Si alzò, dunque, di nuovo, per andare a bere un boccale di birra con quella ragazza. Che cosa le avrebbe detto? Che cosa lei avrebbe detto a lui? Niente, certo. Che importava? Le avrebbe stretto la mano per qualche istante! Sembrava che lei avesse una certa simpatia per lui. Perché, dunque, non andava a trovarla più spesso?
La trovò che sonnecchiava su una sedia nella birreria semivuota. Tre avventori fumavano la pipa, i gomiti appoggiati alle tavole di quercia, la cassiera leggeva un romanzo, il padrone, in maniche di camicia, dormiva profondamente su una panca.
Quando lo vide, la ragazza si alzò subito e gli corse incontro:
«Buon giorno, come va?»
«Non c’è male, e tu?»
«Io benissimo. Lei non viene quasi mai!»
«Non ho molto tempo a disposizione. Sai che son medico.»
«To’; non me lo aveva mai detto. Sono stata poco bene la settimana scorsa e, se lo avessi saputo, sarei venuta da lei. Che cosa prende?»
«Una birra, e tu?»
«Anch’io, visto che me la paghi.»
Da quel momento continuò a dargli del tu, come se l’offerta della consumazione avesse costituito un tacito permesso. Seduti l’uno di fronte all’altra, cominciarono, allora, a chiacchierare. Di tanto in tanto, lei gli prendeva la mano, con la facile familiarità delle donne che vendono le loro carezze, lo provocava con occhiate, gli diceva:
«Perché non vieni più spesso? Mi piaci molto, caro.»
Ma già lui non ne poteva più di lei, la trovava stupida, volgare, plebea. «Le donne,» pensava, «devono apparirci in un sogno o in una aureola di lusso, che sublimi la loro volgarità.»
Lei gli chiedeva:
«L’altra mattina sei passato con un bel ragazzo biondo, con una gran barba: è tuo fratello?»
«Sì; è mio fratello.»
«Che bel ragazzo!»
«Ti pare?»
«Ma sì, e poi ha l’aria di un buontempone.»
Quale strano bisogno lo spinse, improvvisamente, a raccontare a quella cameriera di birreria dell’eredità di Jean? Perché quel pensiero, che respingeva quand’era solo, per paura del turbamento che provocava nella sua anima, lo spinse a parlare in quel momento e perché mai lasciò sgorgare le parole, quasi avesse avuto bisogno di liberare di nuovo, davanti a qualcuno, il suo cuore gonfio d’amarezza?
«Ha una bella fortuna, mio fratello: ha ereditato ventimila franchi,» disse, accavallando le gambe.
Lei spalancò gli occhi azzurri e avidi:
«Oh! E chi glieli ha lasciati? Sua nonna o una zia?»
«No; un vecchio amico dei miei genitori.»
«Un semplice amico? Non è possibile! E a te non ha lasciato niente?»
«No. Io lo conoscevo pochissimo.»
Lei rifletté qualche secondo, poi, con uno strano sorriso sulle labbra, disse:
«È fortunato, tuo fratello, ad avere amici di quel genere! In realtà non c’è da meravigliarsi se ti somiglia così poco!»
Lui ebbe voglia di schiaffeggiarla, senza sapere precisamente il perché, e chiese, con la bocca contratta:
«Che cosa intendi dire?»
«Io, niente,» rispose lei con aria tonta e ingenua.
«Voglio dire che ha più fortuna di te.»
Pierre gettò venti soldi sul tavolo ed uscì.
Ora si ripeteva quella frase: «Non c’è da meravigliarsi se ti somiglia così poco.»
Che cosa aveva pensato, che cosa aveva sottinteso la ragazza con quelle parole? Certo, c’era un senso di malizia, di cattiveria, di infamia. Sì, quella ragazza aveva pensato che Jean fosse figlio di Maréchal.
L’emozione da lui provata al pensiero di quel sospetto lanciato su sua madre fu così violenta ch’egli si fermò e cercò con lo sguardo un posto dove sedersi.
Di fronte a lui c’era un altro caffè. Vi entrò, prese una sedia e disse al cameriere che gli si avvicinava: «Una birra.»
Rabbrividiva, sentiva il cuore battergli e ad un tratto ricordò le parole di Marowsko la sera prima: «Non farà buona impressione.» Aveva avuto lui pure lo stesso pensiero, lo stesso sospetto di quella sfacciata?
Con la testa china sul boccale, guardava la schiuma bianca montare e sciogliersi e si chiedeva: «È possibile che si creda una cosa simile?»
Una dopo l’altra gli apparvero chiare, evidenti, esasperanti le ragioni che avrebbero fatto nascere negli animi quel dubbio odioso. Niente di più semplice, di più naturale che un vecchio scapolo, senza eredi, lasci il suo patrimonio ai due figli di un amico, ma se lascerà tutto a uno solo, allora sì, che la gente si stupirà, farà dei pettegolezzi e finirà col sorridere. Come aveva potuto non prevederlo? Come suo padre non l’aveva sentito e sua madre indovinato? No, erano stati troppo felici per quel denaro insperato perché un simile pensiero potesse sfiorarli. E poi persone così oneste come potevano sospettare una simile infamia?
Ma la gente, i vicini, i bottegai, i fornitori, tutti quelli che li conoscevano avrebbero raccontato in giro quella cosa vergognosa, si sarebbero rallegrati, divertiti alle loro spalle, avrebbero riso di suo padre e disprezzato sua madre.
E l’osservazione fatta dalla ragazza della birreria che Jean era biondo e lui bruno, che non si assomigliavano né nel volto, né nel modo di camminare, né nella figura, né tantomeno nell’intelligenza, sarebbe saltata agli occhi di tutti. Quando si sarebbe parlato di uno dei figli Roland, qualcuno avrebbe chiesto: «Quale? Il vero o il falso?»
Si alzò, deciso ad avvertire il fratello, a metterlo in guardia contro quel tremendo pericolo, che minacciava l’onore della loro madre. Ma che avrebbe fatto Jean? La cosa più semplice, certo, sarebbe stata rifiutare l’eredità, che sarebbe andata ai poveri, e dire soltanto agli amici ed ai conoscenti informati di quel lascito che il testamento conteneva clausole e condizioni inaccettabili, che avrebbero fatto di Jean non un erede, ma un depositario.
Mentre tornava a casa, pensava che doveva veder suo fratello da solo, per non parlare di un simile argomento in presenza dei genitori.
Da fuori gli giunse un gran rumore di voci e di risate provenienti dal salotto e, entrato, udì la signora Rosémilly e il capitano Beausire, che suo padre aveva condotti e trattenuti a cena, per festeggiare la buona notizia.
Avevano fatto portare del vermouth e dell’assenzio per stuzzicare l’appetito e, per cominciare, si mettevano di buon umore. Il capitano Beausire, un ometto tutto rotondo a furia di rullare sul mare, pareva avesse anche tutte le idee rotonde come i ciottoli della spiaggia; rideva con la gola piena di erre e considerava la vita una cosa bellissima, nella quale tutto fosse buono da prendere.
Trincava con papà Roland, mentre Jean offriva alle signore altri due bicchieri pieni.
La signora Rosémilly rifiutava; ma il capitano Beausire, che aveva conosciuto il suo defunto marito, esclamò:
«Su, su signora: bis repetita placent, come diciamo noi in dialetto, il che significa: ‹Due vermouth non fanno mai male.› Io, vede?, da quando non navigo, mi offro così, ogni giorno, prima di mangiare, due o tre colpi di rullio artificiale! Ci aggiungo un colpo di beccheggio dopo il caffè, e ciò mi produce il mare grosso per la serata. Non arrivo, però, mai fino alla tempesta; mai, mai, perché temo le avarie.»
Roland, che sentiva lusingata la sua mania, rideva a crepapelle, con il volto già rosso e l’occhio intorpidito dall’assenzio.
Aveva un pancione da bottegaio. Era solo pancia come se lì si fosse ritirato il resto del suo corpo, uno di quei ventri flaccidi di uomini sedentari, che non han più né cosce, né petto, né braccia, né collo, perché il fondo della loro sedia ha accumulato tutto il grasso in un punto solo.
Beausire, invece, sebbene basso e grosso, sembrava pieno come un uovo e duro come una palla.
La signora Roland non aveva ancora vuotato il suo primo bicchiere e, rosea di felicità, con gli occhi luccicanti, contemplava suo figlio Jean. In lui, ora, la gioia esplodeva. Concluso e firmato l’affare, possedeva ventimila franchi di rendita. Nel modo di ridere, di guardare, di parlare con la gente a voce più alta, nelle maniere più recise, nella maggior sicurezza si sentiva la baldanza che dà il denaro.
Il pranzo fu annunziato e, mentre il vecchio Roland si accingeva ad offrire il braccio alla signora Rosémilly, la moglie esclamò:
«No, no, papà; oggi tutto è per Jean.»
Sulla tavola risplendeva un insolito lusso: davanti al piatto di Jean, seduto al posto di suo padre, un grande mazzo di fiori pieno di nastri di seta, vero bouquet da cerimonia, si ergeva come una cupola pavesata, circondato da quattro alzate una delle quali recava una piramide di pesche magnifiche, la seconda una torta monumentale, ricolma di panna montata e coperta di campanelle di zucchero filato, una cattedrale di biscotto; la terza fette di ananas annegate in uno sciroppo chiaro e la quarta, lusso inaudito, dell’uva nera, giunta dai paesi caldi.
«Accidenti!» disse Pierre, sedendosi. «Celebriamo l’avvento di Jean il Ricco.»
Dopo la minestra fu versato del madera e già tutti parlavano contemporaneamente. Beausire descriveva un pranzo che aveva fatto a San Domingo, ospite di un generale negro.
Papà Roland lo ascoltava, cercando di intrufolarsi nel discorso col racconto di un altro banchetto offerto da un suo amico a Meudon dove tutti gli invitati, dopo, erano stati male per quindici giorni. La signora Rosémilly, Jean e sua madre combinavano una gita ed una colazione a Saint-Jouin, e si ripromettevano, fin d’ora, di divertirsi molto. Pierre rimpiangeva di non aver mangiato solo in un’osteria in riva al mare, per evitare tutto quel rumore, quelle risate e quella gioia che gli davano ai nervi.
Pensava come parlare al fratello dei suoi timori e farlo rinunciare a quella fortuna della quale egli godeva e si inebriava in anticipo. Sarebbe stato duro per lui, certamente, ma era necessario. Non poteva esitare: la reputazione di sua madre era in pericolo.
La comparsa di una grande ombrina trascinò Roland in racconti di pesca. Beausire ne narrò di sorprendenti al Gabon, a Santa Maria di Madagascar e in particolare sulle coste della Cina e del Giappone, dove i pesci hanno facce strane come gli abitanti. Ne descriveva l’aspetto: grandi occhi dorati, ventri turchini o rossi, strane pinne, simili a ventagli, code tagliate a mezzaluna, con una mimica così divertente che tutti, ascoltandolo, ridevano fino alle lacrime.
Pierre soltanto pareva incredulo.
«È proprio vero che i normanni sono i guasconi del nord,» borbottava tra sé.
Dopo il pesce venne una pasta sfoglia; poi pollo arrosto, insalata, fagiolini verdi e un pasticcio di allodole di Pithiviers. La domestica della signora Rosémilly aiutava nel servizio e l’allegria andava man mano crescendo con il numero dei bicchieri di vino. Quando saltò il tappo della prima bottiglia di champagne, papà Roland, molto eccitato, imitò con la bocca il rumore di quello scoppio e poi esclamò:
«Preferisco questo ad un colpo di pistola.»
Pierre, sempre più irritato, rispose sghignazzando:
«Eppure questo, forse, è più pericoloso per te.»
«Perché?»
Da molto tempo egli si lamentava della sua salute, di un senso di peso, vertigini, malesseri costanti e inspiegabili. Il dottore continuò:
«Perché un proiettile può benissimo passarti accanto, mentre il bicchiere di vino va necessariamente nel tuo corpo.»
«E poi?»
«E poi ti brucia lo stomaco, altera il sistema nervoso, rallenta la circolazione e prepara il colpo apoplettico, come può succedere a tutti gli uomini del tuo tipo.»
L’ebbrezza crescente dell’ex gioielliere parve disperdersi come fumo al vento. Fissava il figlio con occhi inquieti, cercando di capire se per caso non si prendesse gioco di lui.
Ma Beausire esclamò:
«Ah, questi benedetti medici: sempre gli stessi! Non mangiate, non bevete, non fate l’amore, non ballate il girotondo: tutto ciò fa male alla salute! Ebbene! Io ho fatto tutte queste cose, signore, in tutte le parti del mondo, dovunque potevo e più che potevo, eppure non sto affatto male.»
Pierre rispose, acido:
«Prima di tutto, capitano, lei è più forte di mio padre, e poi tutti i buontemponi parlano come lei, fino al momento in cui...; e non tornano il giorno dopo a dire al medico prudente: ‹Avevate ragione, dottore...› Quando vedo mio padre fare quel che c’è di peggio e di più pericoloso per lui, è naturale che lo avverta. Se non lo facessi, sarei un cattivo figlio.»
La signora Roland intervenne a sua volta:
«Andiamo, Pierre, che cos’hai? Per una volta, non gli farà male. Pensa che festa, per lui, per noi! Sciupi tutto il piacere a lui e addolori tutti noi. Non dovresti fare così.»
Pierre mormorò, alzando le spalle:
«Faccia quello che vuole. L’ho avvertito.»
Ma papà Roland non beveva. Guardava il suo bicchiere colmo di vino luminoso e limpido, la cui anima leggera, pura e inebriante saliva dal fondo in bollicine rapide e fitte che evaporavano in superficie. Lo guardava con una diffidenza da volpe che trovi una gallina morta e sospetti una trappola.
Chiese, esitando:
«Credi che possa farmi molto male?»
Pierre sentì rimorso e si rimproverò di riversare sugli altri il suo malumore.
«Be’, per una volta puoi berlo, ma non esagerare e non prendere l’abitudine.»
Allora papà Roland alzò il bicchiere senza decidersi ancora a portarlo alle labbra. Lo contemplava dolorosamente, con desiderio e con timore; poi lo annusò, lo assaggiò, lo bevve a piccoli sorsi, assaporandolo, con il cuore pieno d’angoscia, di debolezza e di golosità, e infine di rimpianto, non appena fu vuoto.
All’improvviso Pierre incontrò lo sguardo della signora Rosémilly: i suoi occhi limpidi, azzurri lo fissavano chiaroveggenti e duri ed egli sentì, penetrò, indovinò chiaramente il pensiero che li animava. Lo sguardo indignato di quella piccola donna dall’aria semplice e onesta infatti diceva: «Tu sei invidioso. Vergogna!»
Chinò la testa e riprese a mangiare. Non aveva appetito, trovava tutto cattivo. Non vedeva l’ora di andarsene lontano da quella gente di non sentirla più parlare, scherzare e ridere.
Intanto papà Roland, di nuovo turbato dai fumi del vino, dimenticava già i consigli del figlio e guardava con occhio obliquo e tenero una bottiglia di champagne ancora quasi piena, accanto al suo piatto. Non osava toccarla per paura di nuovi rimproveri e cercava una malizia, una scusa per prenderla senza provocare nuove osservazioni di Pierre. Alla fine escogitò una semplicissima astuzia: prese con disinvoltura la bottiglia e tenendola per il fondo allungò un braccio attraverso la tavola; riempì per primo il bicchiere di Pierre che era vuoto, poi fece il giro degli altri e quando venne il suo turno si servì cominciando a parlare a voce molto alta così se versò qualcosa nel suo bicchiere chiunque avrebbe giurato che aveva compiuto quel gesto inavvertitamente. Del resto nessuno vi badò.
Pierre, senza pensarci, beveva molto. Nervoso e irritato, portava di continuo alle labbra il lungo calice di cristallo dove si vedevano correre le bollicine del liquido vivo e trasparente. Lo beveva lentamente per sentire il fresco e leggero sapore del gas evaporare sulla lingua. A poco a poco lo invase un dolce calore: saliva dallo stomaco come un fuoco e invadeva le membra diffondendosi in tutto il corpo come un’ondata tiepida e benefica che dava gioia. Si sentiva meglio, più tranquillo e meno arrabbiato e l’idea di parlare al fratello quella sera stessa non gli sembrava più così urgente, non perché pensasse di rinunciarvi ma non voleva turbare subito il benessere che sentiva.
Beausire si alzò per fare un brindisi.
«Gentilissimi signore e signori, siamo qui riuniti per festeggiare un lieto avvenimento capitato ad un nostro amico. Si diceva, in altri tempi, che la fortuna è cieca; io credo sia semplicemente miope o maliziosa, ma abbia ora acquistato un ottimo cannocchiale, che le ha permesso di distinguere, nel porto di Le Havre, il figlio del nostro bravo camerata Roland, capitano della Perle.»
Molti bravo si levarono, rinforzati da applausi, e papà Roland si alzò per rispondere.
Dopo aver tossito, perché si sentiva la lingua impastata e un po’ pesante, balbettò: «Grazie, capitano, grazie per me e per mio figlio. Non dimenticherò mai come si è comportato in questa circostanza.»
Aveva gli occhi e il naso pieni di lacrime e tornò a sedere, non trovando più nulla da dire.
Jean rideva e prese la parola a sua volta:
«Son io,» disse, «che devo ringraziare gli amici fedeli, gli ottimi amici», e guardava la signora Rosémilly, «i quali oggi mi danno questa commovente prova del loro affetto. Ma non posso certo con parole provar loro la mia riconoscenza. La dimostrerò loro domani, in ogni istante della mia vita, sempre, perché la nostra amicizia non è di quelle che finiscono.»
Molto commossa, la madre approvò:
«Benissimo, figlio mio.»
Ma Beausire esclamava:
«Suvvia, signora Rosémilly, parlate in nome del bel sesso.»
Ella alzò il bicchiere e, con voce gentile, soffusa di lieve tristezza, disse:
«Io bevo alla memoria benedetta del signor Maréchal.»
Vi fu un momento di sospensione, di compunto raccoglimento, come dopo una preghiera. Beausire, che aveva il complimento facile, osservò:
«Soltanto le donne sanno dire cose così delicate.»
Poi, rivolto a papà Roland:
«Alla fin fine, chi era questo Maréchal? Eravate molto amici?»
Il vecchio, intenerito dall’ubriachezza, si mise a piangere e farfugliò:
«Un fratello... sapete... uno di quelli che non si trovano più... Sempre insieme eravamo... Mangiava in casa nostra tutte le sere... e ci portava spesso a teatro... Non vi dico altro... altro... Un amico... di quelli veri... Non è così, Louise?»
La moglie rispose semplicemente:
«Sì, era un amico fedele.»
Pierre guardava il padre e la madre; ma siccome già si parlava d’altro, si rimise a bere.
Della fine di quella serata non ricordò niente. Avevano preso il caffè, bevuto liquori, avevano riso e scherzato molto. Poi era andato a letto, verso mezzanotte, con la mente confusa e la testa pesante. E aveva dormito come un sasso fino alle nove del giorno dopo