Pandemonio/Avvertenza
Questo testo è completo. |
◄ | Pandemonio | Dedica | ► |
AVVERTENZA
Quando Filippo Zamboni, colto de malore improvviso morì, in un dolce mattino, spirante il maggio del passato anno, questo a lui diletto libro, pensato negli anni senili, sentito con tutta la passione della fantasia e del cuore rimasti in lui veramente giovani, ingenui, non intaccati, non raffreddati e per conseguenza non raffrenati nel loro moto vertiginoso dall’esperienza, dallo scetticismo, questo libro disordinato nella forma e moralmente tanto armonico, raccolto in un concetto unico di bellezza, di bontà e d’altruismo, era già stampato, corretto ed impaginato fino alla facciata recante il numero 355.
Egli soleva fare così prima di compire i suoi libri. Voleva man mano vedere nitidamente espresso il suo pensiero in caratteri da stampa per procedere allo svolgimento ulteriore delle idee che gli si affollavano in capo, del materiale ammassato a farne suo pro.
Notava e scriveva in furia, succintamente, poi come aveva elaborato una parte, la inviava da Vienna alla tipografia Landi a Firenze. Sempre Firenze per stampare i lavori suoi. Ma prima s’incaricava la coltissima e affettuosissima consorte sua di trascrivere le cartelle, fieramente sconvolte per troppa foga d’animo e impazienza febbrile di mano, che gli faceva spesso adoperare, per far più presto, segni stenografici tutti suoi propri, geroglifici assoluti a non iniziati.
Dunque il Pandemonio era un libro fatto per l’una metà, mentre da elaborarsi l’altra metà rimaneva; delineata però e divisa in tutte le sue parti principali. L’avvenimento più grande e più amaro del secolo, la distruzione orrenda di Messina e di Reggio, non rettorico strazio d’un vero cuore italico, sopraffece lo scrittore e mutò l’ordine (l’ordine che vi poteva essere in quello che non per capriccio ma perchè in effetto trambusto di sentimento e di fantasia intitolò Pandemonio), mutò, diciamo, l’ordine dell’opera, sì che l’autore volle intromettere il capitolo deplorante la sventura immane nelle parti del libro, già se non tutte composte, segnate, non riserbarlo alla fine.
Ed avvenne che, appena tracciato il nuovo piano, senza poter correggere nè disporre il materiale fresco ed il non ancora stampato, la morte rese inerte la mano, sola a possedere la chiave della futura armonia, e vorrei dire economia, del volume. Così quello che va dalla pagina 356 alla pagina finale (tolto il Fonografo e le Stelle, in origine una conferenza pubblicata già in opuscolo) è testo frammentario, cui egli solo avrebbe potuto dare la forma e la disposizione finale più acconcia, rimaneggiando, correggendo, mutando, aggiungendo dal tesoro delle sue memorie.
Noi, compilatrici, ci attenemmo ai dati ritrovati, fedeli con scrupolosa coscienza alla parola sua. Non ci fu selezione, o arbitrio d’accettazione o di rigetto, d’accomodamento, di vagliature. Tutto quanto fu possibile dare alla stampa è qui dato. Dove qualche segno ci avvertiva dell’ordine de seguire, fu seguito. Dove no, la conoscenza nostra della mente dello scrittore, il quale ebbe in vita ad esprimere il desiderio che a ridurre a compimento la pubblicazione, ove egli non avesse potuto, fossimo state noi, la sua diletta compagna ed io, valse ad orienterci. Ma qui non v’è, ripeto, che la parola sua; come vi è la sua ortografia, la sua interpunzione, supplito solo da noi quando quella per avventure assente. Alla sua ortografia, in qualche caso speciale, Filippo Zamboni tenne in particolar modo; a raddoppiamenti musicali di consonanti che modernamente si elidono. “Perchè sacrificare un suono, un’armonia della pronuncia italica!” soleva dire. Se talora semplificò pur egli, fu involontariamente, per fretta di scrivere. Tenne d’usare a suo grado di maiuscole e di minuscole; tenne a certe legature di nomi e qualifiche o numeri in quelli compresi. Così sempre scrisse Sangiusto, con voce unica; e Pionono e Piodecimo; nè fu raro il caso che nella correzione delle bozze di stampa ebbe a inquietarsi e lottare col proto ossequente all’uso comune.
Inezie; ma i censori delle inezie sono appunto numerosi assai più dei critici perspicaci. Verso questi ultimi non abbiamo duopo di ulteriori delucidazioni. Per quegli altri non avremmo naturalmente finito mai. Stimammo anche inutile d’aggravare il testo, bizzarro e libero nel suo andere, con nostre note o richiami o altri appunti.
- Vienna, nel marzo del 1911.
Elda Gianelli.