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Proclama al popolo dello Stato Romano

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Proclama al popolo dello Stato Romano1
I candidati alla Costituente Governo e armata di popolo


Non è nostro ufficio raccomandarvi di scegliere a deputati uomini per energia, per intelligenza, per core, per indipendenza di posizione capaci di rappresentarvi degnamente nella Assemblea generale delle provincie. Noi non siamo tutti romani; benché non crediamo che nessuno nato in Italia sia straniero in terra italiana, riconosciamo in ogni modo che voi soli potete giudicare precisamente del valore degli individui, dei bisogni municipali ove siete nati e vissuti.

Ma badate bene che il vostro voto non peserà solo sulle sorti delle vostre provincie, ma su quelle dell’intera penisola.

A’ dí nostri massimamente non si può essere buoni romani senza essere buoni italiani; l’ordinamento di una provincia che non armonizzasse coi bisogni, colle tendenze della nazione, non solo sarebbe dannoso a questa, ma anche a quella. L’interesse della parte non può essere disgiunto dall’interesse del tutto.

D’altra parte è sperabile che voi darete ai deputati un doppio mandato, l’uno per la Costituente delle provincie, l’altro per la nazionale: e anche per questo motivo ci si offre occasione di rivolgervi la parola e il consiglio fraterno.

Molti vi saranno intorno predicandovi, ogni forza in Italia essere in mano ai governi, tradizionale e necessario il frazionamento, immaturo il popolo alla libertà. Diffidate degli apostoli che predicano la viltà; diffidate di certi assiomi che, detti da alcuni e ripetuti da molti, sono tenuti per incontrastabile verità e sono tutt’altro.

Il rapido accrescimento dell’influenza popolare, la totale decadenza dell’iniziativa governativa sono fatti che non possono ormai sfuggire a nessuno che vegga e che sia di buona fede.

In Roma, in Toscana, nello stesso Piemonte furono rovesciati i ministeri voluti dal principe, appoggiati dalla maggiorità delle Camere: le Camere stesse furono dove piú, dove meno gentilmente congedate. Ma nel momento che non v’è piú vita nelle dinastie, nei Parlamenti costituzionali, ciò significa che la forza è sfuggita alle caste, alle frazioni, e s’è diffusa nel popolo, nell’intiera nazione. Da quel momento importa che le istituzioni governative si accomodino a questa trasformazione nazionale sotto pena di essere o assolutamente tiranniche come a Napoli, o fantocci che una dimostrazione popolare travolge, come in Toscana ai tempi del ministero Samminiatelli, in Piemonte a quei di Pinelli.

Un altro grave pregiudizio è invalso fra molti: quello cioè che le attuali «divisioni statuali» sieno appoggiate sopra l’indole e la tradizione nazionale. Nessuno dei governi esistenti è nazionale, e fu mai nazionale in Italia. La tradizione italiana – e per tale noi riguardiamo la storia del tempo in cui l’Italia fu gloriosa e libera – è o unitaria ne’ tempi romani o municipale nel Medio Evo. Quelli che colla tradizione volessero appoggiare il frazionamento non potrebbero logicamente intenderlo in altro senso che nel municipale. La tradizione non ci dà né lo Stato di Sardegna, né la Toscana, né le due Sicilie e tanto meno l’Alta Italia; ci dà Sicilia, Firenze, Genova, Pisa, ecc. Ma chi vorrebbe, attorniati come siamo da forti e compatte nazioni che tendono a schiacciarci sotto il loro peso, dividere in mille brani l’Italia? Però, volendo coordinare la costituzione presente con la tradizione del paese, non resta che a riunire la tradizione unitaria romana e la municipale. Da ciò risulta un’unità nazionale stabilita su base di larghe libertà municipali.

A chi poi parla d’ignoranza nel popolo, rispondete che se scorra le provincie dei paesi piú liberi in Europa, la Francia e la Svizzera, troverà il popolo meno civile assai del nostro; rispondete che un popolo come il nostro che visse talvolta sotto governi che non significano che un’assoluta anarchia, talvolta come al presente sotto nessun governo, vivrà piú facilmente sotto un governo che corrisponda ai bisogni del paese, emergendo per dire così dalle sue viscere: rispondete che se il nostro popolo abbisogna di educazione, lo si educherà meglio colla libertà che colla tirannide.

E parlando dell’unità corriamo naturalmente alla quistione del Papato. Voi, vissuti per lungo tempo sotto la piú dura delle tirannidi, sbagliereste di molto se non credeste il principato papale che una piaga la quale afflisse lungamente queste provincie. V’è piú: egli fu e sarebbe sempre, se continuasse ad esistere, che Dio lo tolga, un insormontabile ostacolo alla nazionalità, all’unità dell’intera Italia: governo per propria natura impotente, non poté mai sperare di stringere sotto di sé l’intera penisola: però l’opera sua tese sempre a dividerci in molti Stati, ad indebolire quale di questi si levasse a potenza per non esserne schiacciato: sostenere la propria influenza, invocando una potenza straniera; ricorrere ad un’altra quando questa lo dominasse troppo, fu sempre la sua politica. Liberate voi, liberate Italia, liberate Roma da questo suo perpetuo nemico, il quale dopo avere rifiutato di combattere il ladrone austriaco, si studia di eccitare la guerra civile, e dalle stanze contaminate del re di Napoli manda la scomunica ai suoi « dilettissimi figli». Voi non avete curata quella scomunica perché era ingiustizia solenne: voi vi siete comportati da uomini i quali sanno che la religione non ha che far nulla col principato, perché il regno di Cristo non è di questo mondo. Compite l’opera, usate di tutto il vostro diritto, separate affatto il Papa dal Principe e sarete benemeriti della religione e della civiltà, perché toglierete lo scandolo che offende tutti i veri credenti. Fate sì che i preti tornino al santuario, che piú non possano esser tiranni, e che per essi Cristo non sia piú fatto capitano di ribellioni e di guerre fraterne.

Lo scioglimento di questo problema è tanto piú necessario in questo momento in cui importa stringere in uno le forze della nazione, perché concorrano al piú grande conato a cui sia chiamato il nostro paese: alla conquista dell’indipendenza. Pio IX lo disse: «il Papa non può sagrificare gli interessi del papato agli interessi dell’Italia, il papato non può far guerra all’Austria». Un governo che non può far guerra all’Austria non può esser governo italiano.

E un altro insegnamento risulta dalla dolorosa prova della ultima guerra: gli interessi dei principi non sono gli interessi della Nazione; e mentre il sangue italiano scorreva in Lombardia, alcuni di essi erano alleati dell’Austria palesemente, altri copertamente, un solo ha combattuto e questo in un interesse dinastico e con fede che è dubbia per molti e col successo che tutti sanno. Dunque la guerra regia non può salvare l’Italia. Resta la guerra nazionale; e perché questa abbia luogo, bisogna costituire la nazione. Convocate al piú presto la Costituente Nazionale: che questa ordini l’Italia per l’Italia, faccia la guerra per l’Italia, vinca per l’Italia.

Voi sentirete quale grave incarico sia serbato ai vostri deputati: a voi tocca scegliere Uomini uguali all’opera che la Nazione aspetta da loro e pensate, vi ripetiamo: che il vostro voto non pesa solamente sulla bilancia dei destini delle vostre provincie ma dell’intera Penisola. Badate a non dividere la Costituente Romana dall’Italiana; col doppio mandato fate delle due cose una sola cosa: la grandezza di Roma è nella grandezza dell’Italia, e nelle vostre mani sta la vita dell’Italia.


Note

  1. Pubblicato in Il Tribuno, Roma, 16 gennaio 1849.