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Ai popoli d'Italia

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Discorso pronunciato a Genova il 2 gennaio 1848 I militari rammentino ch'essi pure son popolo


«Il popolo della città di Genova, non ultimo per sacrifizii alla patria, a nessuno secondo in amarla, giacché si sente italiano per sangue, per affetti, per commerci, per tradizioni e sul marmo di Portoria, risolutamente giurava di volerla non profanata dallo straniero, libera e unita; se mai tacesse in questi supremi istanti, mentre si mercanteggia e si uccide turpemente la patria, mancherebbe a se stesso, alla vita propria, ai giuramenti fatti, all’Italia. Né il popolo genovese ha mai chinato lo sguardo dinanzi al pericolo, ha mai sofferto che vergognosa taccia offuscasse il suo nome. Oggi quindi si leva in piedi e protesta contro un preteso armistizio, traditore pei nostri fratelli di Lombardia e di Venezia, disonorevole per le nostre sí valorose milizie, finale condanna delle libertà italiche; e senza avvertire che offende vitalmente le leggi dello Statuto, e che quindi riesce nullo per sua natura, protesta in faccia agli uomini e a Dio contro siffatta vergogna, e la rimanda sul volto de’ tristi che l’han voluta. Egli, parato ad offrire il suo oro e il suo sangue, ma geloso delle sue libertà, del sacro tesoro della gloria nazionale, non può riconoscere un atto, che ci cancella dal numero delle indipendenti nazioni. E quest’atto non è che il preludio di quello, col quale dovrebbesi comperar la pace.

L’onnipotenza del popolo in cinque giorni spezzava le catene tedesche dal Ticino a Gorizia; tutto cadeva eccetto Peschiera, Verona e Mantova dove s’intanava un esercito sbaragliato. In quattro mesi di guerra ordinata, con numerose milizie, forti per ordine e per amore alla patria, che sempre vinsero di faccia al nemico, che tutto soffersero lietamente, i nostri condottieri con tanta sapienza s’affaticarono da perdere tutto quello che il popolo aveva guadagnato. Milano, che liberavasi con trecento fucili da caccia, la si consegnava agli Austriaci difesa da piú di settantamila baionette.

E la perdita costa un’ingente somma, i sospesi commerci, un esercito dissanguato, disperso piú che da ferro nemico da studiati disagi, da pensata fame, ventimila uomini tra morti, feriti, e languenti per febbre, centomila persone poveramente raminghe per le terre svizzere e piemontesi; e perfino l’indipendenza, se l’Italia non provvede a se stessa. Mentre gran parte d’Italia negli anni scorsi giaceva affiacchita, incatenata da governi nell’ozio, pur restava la bellissima e fiera milizia della provincia sarda, sua unica gioia e speranza, suo vanto. E cosí per gettarci nella disperazione, si volle sprecare anche questo tesoro, fra le baionette austriache e il nostro petto non lasciare verun baluardo; onde puossi ben dire, benché sia orribile a dirsi, che l’esercito italiano fu da mani italiane distrutto.

Ma perché non sembrava abbastanza chiaro quali fossero le destre operatrici dell’immensa sventura, ridotto al di qua del Ticino l’esercito, affranto veramente da questa comandata fuga, odiator de’ suoi capi perché autori d’ogni male, sfiduciato della vittoria, supplicavasi dal Tedesco una tregua di sei settimane, e la si comperava vendendo quel che i soldati avean conquistato come Peschiera, quel che non avean mai veduto, come Osoppo, i passi del Tonale, e dello Stelvio, la Rocca d’Anfo, quel che in nome della indipendenza erasi abbandonato nelle nostre braccia, come Piacenza, Modena e Parma. Secondo fu di Milano, la legge d’unione non parve strappata a Venezia che per disarmare il popolo, dileguarne l’entusiasmo, rapirgli la volontà; e si prendeva possesso di Venezia il sette per consegnarla il dí nove ai Tedeschi; i quali già sono a Parma, ricondussero nel suo seggio il Duca di Modena, minacciano ma indarno Bologna; intimano ai Toscani di non essere uomini per non essere combattuti, e accennano Roma, invocati certo dal Borbone che sarà l’ultimo imperocché vive la giustizia di Dio. I nemici occupano le antiche lor terre coll’insolenza della vittoria, padroneggiano tutte le altre; in ogni luogo rialzasi il birro invilito e medita sorridendo le vecchie prove.

Questi sono i primi frutti dell’armistizio, non approvato dalle «Camere», non sottoscritto dai ministri che tuttavia non potrebbero cedere la menoma parte del territorio senza l’assenso del Parlamento, atto quindi pienamente incostituzionale, nullo. E se anche lo fosse che importa? Dobbiamo forse stendere il collo e lasciarci ferire? Se tali sono le condizioni dell’armistizio, quelle della pace che saran mai? Gli austriaci non battono forse, e non batteranno fra poco alle porte d’Alessandria? E Genova è forse sicura?

Ma il popolo di Genova si sente ancor quello del 1746; giacché dovrebbe nascondere quella gloriosa bandiera, riconoscendo tregue coll’inimico, nella forma illegale, funestissima nelle sue conseguenze. Fra la vita e la morte, fra Italia ed Austria non vi ponno esser tregue cosí obbrobriose pel popolo nostro. Ei non vuole perire come agnello, ma vivere come lione. E questa è la divisa dell’intiera Nazione, i Governi lo sappiano, di venticinque milioni d’uomini che anelano stringersi in una sola famiglia, credenti ad un sol patto, nostra religione. Ché se i Gesuiti, gettata via la sottana, assunsero l’uniforme di generali, per vendere colla patria il sangue dei soldati, figlioli o fratelli nostri, non può, non dee la Nazione lasciarsi lordare dalle infamie d’una congrega che dalla reggia ove sta consigliera giunge sino alle orecchie del povero che prega Iddio. I martiri di Goito, di Curtatone, di Somma Campagna, di Volta non ponno esser morti per una menzogna.

E noi dichiariamo questi sensi perché non siamo vili e nemici di noi stessi, perché siamo degni dei nostri riconosciuti diritti, de’ nostri padri, del nome Italiano, della grandezza avvenire e della libertà – senza cui tutto è nulla, e «Iddio si ritira da un Popolo!»


Note

  1. Protesta, letta al «Circolo Nazionale», contro l'armistizio Salasco, il 16 agosto 1848.