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La sera fu molto aggradevole e tepida.

Il fuoco si spegneva in brage. C’era un gran caldo nella camera azzurra, ove Zoè, prima d’andarsene, aveva fatto il letto.

Nana, soffrendo l’eccessiva afa, si alzò per aprire la finestra. Ma diè un lieve grido:

— Dio buono! Quant’è bello!... Guarda cara mia.

Giorgio s’accostò; e come se il davanzale gli fosse parso troppo ristretto, cinse la vita di Nana e poggiò la testa alla spalla di lei...

Il tempo s’era improvvisamente cambiato; il cielo splendeva purissimo, mentre una luna tonda rischiarava la campagna di uno strato d’oro. Regnava una pace infinita, si vedeva la valle allargarsi, sboccando nell’immensità della. pianura, ove gli alberi formavano delle isolette d’ombra nell’immobile mare di luce.

E Nana s’inteneriva; le sembrava di tornar bambina. Aveva sicaramente sognate simili notti in un tempo della sua vita che non ricordava più. Tutto ciò che le accadeva dopo la sua discesa dal vagone, quella sterminata campagna, quell’erbe che mandavano sì acuto aroma, quella casa, quei legumi, tutto ciò le confondeva la mente. Le sembrava aver lasciato Parigi da ventanni, la sua esistenza di ieri era lontana. Sentiva delle cose che non poteva definire.

Giorgio intanto, andava baciandola sul collo, con mille vezzi, ed essa fremeva nel suo turbamento. Con mano esitante lo respingeva come si respinge un fanciullo, la cui tenerezza vi stanca e gli ripeteva che bisognava partire. Lui, non diceva di no; fra poco, partirebbe fra poco.

Ma, un uccello cantò, poi si tacque. Era un pettirosso in un sambuco sotto alla finestra,

— Aspetta, mormorò Giorgio; la lampada gli fa paura; la spegnerò.”

E quando tornò a cingerle la vita, disse:

— La riaccenderemo da qui a un momento.

Allora, nell’ascoltar il pettirosso, mentre il ragazzo le si stringeva dappresso, Nana si ricordò. Sì, certo era in qualore romanzo che ella aveva veduto tutto ciò.