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il paradiso delle signore

letto, come se avesse avuto paura che un soffio bastasse a distruggere quella misera nudità. Era la fine d’un corpo di sposa consunto a forza d’aspettare, e ridotto alla gracilità dell’infanzia. Lentamente Genoveffa si ricoprí; e ripeteva:

— Lo vedete che non son più una donna. Farei male a volerlo ancora.

Si guardarono per un po’ tutt’e due zitte, non trovando piú una parola. Poi Genoveffa riprese:

— Via, via: andatevene; avete da fare. Grazie; volevo sapere tutto, ora son contenta. Se lo rivedete, ditegli che gli perdono... Addio, mia buona Dionisia. Datemi un bacio: è l’ultimo che mi date.

Dionisia glielo diede, assicurando che glie ne avrebbe dati mille altri.

— Ma che! con un po’ di riguardo...

Ma la malata si mise a scuoter la testa, e sorridendo diceva che ormai lo sentiva troppo bene. E nel vedere che la cugina s’avviava per andarsene:

— Aspettate, picchiate con quel bastone, per far venire il babbo... Ho troppa paura quando resto sola.

Poi entrato il Baudu nella cameretta buia dove passava ore e ore a sedere su una seggiola, si finse tutta allegra, e disse forte a Dionisia:

— Non venite domani; è inutile. Ma domenica v’aspetto; starete tutto il giorno con me.

La mattina dopo alle sei, sull’alba, Genoveffa spirava dopo quattr’ore di rantolo orribile. Il trasporto fu di sabato, con un tempo pessimo, un cielo nero che pesava sulla città. Il Vecchio Elbeuf era parato di bianco; i ceri, ardenti nel giorno tetro, parevano stelle intraviste nella nebbia del crepuscolo. Ghirlande di semprevivi


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