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il paradiso delle signore

calzoncini rossi; viveva là tra i piccini come nella sua famiglia, ringiovanita da quella innocenza e da quella freschezza che di continuo le si rinnovava intorno alle gonnelle.

Aveva anche, spesso, lunghe conversazioni col Mouret. Quando doveva andare in Direzione per prender ordini o dare notizie, lui la tratteneva a discorrere, e gli piaceva di starla a sentire. Era ciò ch’essa chiamava, ridendo, «far di lui un brav’uomo». Nella sua testa seria e sveglia da normanna, nascevano disegni sopra disegni, quelle idee sul nuovo commercio che usava già sfiorare col Robineau, e che al Mouret aveva accennate quella sera che avevan passeggiato insieme alle Tuileries. Non le riusciva occuparsi d’una cosa, veder andare innanzi un lavoro, senza essere tormentata dal bisogno di metterci un po’ d’ordine, migliorarne il meccanismo. Per questo, da quand’era entrata nel Paradiso, le dava noia principalmente la incerta sorte dei commessi: quel poter esser mandati via da un momento all’altro le pareva ingiusto e dannoso a tutti, tanto al magazzino quanto al personale. Ogni volta che per le sezioni s’imbatteva in una arrivata di fresco, con i piedi indolenziti, gli occhi pieni di lacrime, trascinando la sua miseria sotto il vestito di seta, tra la persecuzione accanita delle compagne, le tornavano a mente i dolori di quando aveva incominciato anche lei, e si sentiva stringere il cuore di compassione. Quella vita da cane frustato faceva cattive anche le migliori; e le passavano pel capo tante, rovinate dal mestiere prima dei quarant’anni, scomparse nell’ignoto, le piú morte dalla fatica tisiche o anemiche, per il lavoro e l’aria chiusa, altre divenute sgualdrine sui marciapiedi; le piú


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