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ban; e il commesso, trascinato dalla sua passio ne soddisfatta alla fine, non tornava a volte la sera a casa, mentre la povera Genoveffa se ne moriva. La cosa correva pel Paradiso, e pareva un fatto curioso.

Ma questo dolore, l’unico ch’ella avesse, non alterava punto l’umore uguale di Dionisia. Bisognava vederla nella sezione, tra quel suo popolo di bambini di tutte le età! Era proprio il suo posto, perché i bambini li adorava. A volte ce n’era lí una cinquantina, tra femminucce e maschietti; un intero collegio che tumultuava nei desideri nascenti della civetteria. Le mamme ci perdevan la testa; lei, sorridendo, faceva mettere tutti quei monelli in fila a sedere, e quando una piccina col visetto roseo la tentava, la voleva servire da sé, portava il vestitino e lo misurava su le spalli grassocce, con la manierina d’una sorella maggiore. Tra le voci delle mamme che sgridavano, si sentivano risate argentine, e leggiere esclamazioni di stupore. Qualche volta una ragazzina grandetta, di nove o dieci anni, si guardava in uno specchio con un paltoncino di panno su le spalle, si voltava, si rivoltava tutta attenta, con gli occhi luccicanti pel bisogno di piacere. E la roba si ammucchiava sui banchi: vestitini di tela d’Asia, color rosa e turchino per i bambini da uno ai cinque anni, uniformi da marinaio, cappottini con rivolte, mantelli, giacchettine, una confusione di vestiari piccoli e stecchiti nella loro grazia infantile, come il corredo d’una schiera di grandi bambole tratto fuor degli armadi e sparpagliato a ruba. Dionisia aveva sempre in fondo alle tasche qualche confetto per far chetare un bambino che, mettiamo il caso, volesse per forza un paio di


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