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il paradiso delle signore


Non poté andare avanti dalla commozione; e lei lo ammoni con dolcezza:

— Eppure m’avevate promesso di non tenermi piú questi discorsi... E impossibile... Voi siete un bravo figliuolo, e vi sono amica vera; ma voglio restare con la mia libertà.

— Sí, sí, lo so, — rispose egli, e gli moriva nei singulti la voce — voi non mi amate. Oh! me lo potete anche dire, tanto lo vedo da me, che io non ho nulla in me che vi possa fare innamorare... Vedete, in vita mia, non ho avuto che un’ora buona, una sola, quella sera che vi incontrai a Joinville: ve ne rammentate? Per un po’, sotto gli alberi, in quell’ombra, mi parve che il braccio vi tremasse, e fui tanto stupido da immaginarmi...

Ma Dionisia l’interruppe; ecco i passi del Jouve in fondo al corridoio.

— Zitto! c’è qualcheduno.

— No! — disse lui, impedendole d’andarsene dalla finestra. — Il serbatoio manda alle volte dei rumori, che si crederebbe ci fosse gente, lí dentro.

E continuò nei suoi lamenti timidi e carezzevoli.

Lei non ascoltava piú, riassorta dalla fantasticheria in quella ninna nanna d’amore, e errando con lo sguardo sopra le tettoie del Paradiso, campo immenso di vetri e di zinco, di là dal quale si perdevano i tetti delle case vicine.

A destra e a sinistra della galleria di cristalli, altre gallerie ed altre sale luccicavano al sole, disposte in simmetria come una caserma.

Il ferro delle scale e dei ponti s’innalzava leggiero nell’azzurro dell’aria; e il camino delle cucine mandava turbinando un fumo da opificio;


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