Pagina:Zola - Il paradiso delle signore - 1936 - Mondadori.pdf/297


il paradiso delle signore

scattava gli affitti vecchi; le botteghe si chiudevano; gl’inquilini sgombravano. E nelle case vuote un esercito di operai cominciava già i lavori tra nuvoli di polvere. Soltanto la casuccia del Bourras resisteva tra quello scombussolamento, immobile e intatta, ostinatamente confitta tra gli alti muri, pieni di muratori.

Quando, il giorno dopo, Dionisia con Beppino andò dallo zio, la strada era quasi sbarrata da una fila di carri che scaricavano mattoni davanti al palazzo Duvillard. Il Baudu stava a guardare cupamente, ritto sulla soglia della bottega. Piú il Paradiso cresceva, piú pareva che il Vecchio Elbeuf scemasse. La giovinetta trovò le vetrine anche piú nere, piú soffocate dal mezzanino, con finestrine da prigione: l’umido aveva stinto anche peggio il vecchio cartello verde; la facciata intera, quasi dimagrita e color piombo, metteva freddo a vederla.

— Eccovi alla fine, — disse il Baudu. — State attenta! sarebbero capaci di schiacciarvi.

Nella bottega Dionisia sentí lo stesso stringimento di cuore: le pareva anche più buia, anche piú oppressa dalla sonnolenza della rovina; i palchetti vuoti parevano buchi oscuri; la polvere invadeva banchi e scaffali, dai mucchi di stoffa non piú smossi saliva un sito di cantina ammuffita. Alla cassa stavano immobili la Baudu e Genoveffa, come in un angolo solitario, dove nessuno veniva a disturbarle. La mamma orlava canovacci; la figliuola, con le mani cadutele sui ginocchi, guardava nel vuoto innanzi a sé.

— Buona sera, zia! — disse Dionisia. — Come son contenta di rivedervi! e, se mai v’ho dato qualche dispiacere, vi prego di perdonarmi.


295