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voro, e che lei se n’andava proprio sul punto in cui stava per mettere in mostra un ombrello inventato da lui.

— E Beppino? — domandò.

Il bambino dava molto da pensare a Dionisia. Rimetterlo dalla Gras non osava, e neppure lo voleva lasciar solo, chiuso nella stanza, dalla mattina alla sera.

— Va bene: lo terrò io! — riprese il Bourras. — Nella bottega non ci soffre... mangeremo insieme.

E rifiutando lei, per paura di dargli noia:

— Giuraddio! Dunque non vi fidate?... Non ve lo mangerò mica, il vostro piccino!

Dionisia stette assai meglio, dal Robineau. Le dava poco, settanta franchi il mese, e il vitto soltanto, senza alcun utile sulla vendita, secondo l’uso dei vecchi negozi. Ma era trattata con molta dolcezza, specialmente dalla signora che stava, sempre sorridendo, alla scrivania. Lui, nervoso, stizzito, qualche volta era un po’ brusco di modi. In capo a un mese, Dionisia era divenuta una di casa, come l’altra ragazza, una donnina tisica, sempre zitta. Dinanzi a loro i padroni non avevano segreti: la sera a tavola, nella stanza dietro il negozio, che dava sopra un cortile pieno di luce, discorrevano liberamente degli affari. Fu lí che una sera fu stabilito d’attaccar battaglia col Paradiso delle signore.

C’era a pranzo il Gaujean. Quando venne in tavola l’arrosto, una bella coscia di capretto, da buoni borghesi, egli cominciò a parlare della faccenda col suo accento lionese, guasto dalle nebbie del Rodano.

— Cosí non si dura, — ripeteva. — Vanno dal Dumonteil, per esempio, e prendono per sé


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