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tazione. Non aveva bisogno che di un temperino; e passava le giornate intere, con gli occhiali sul naso, attorno a un pezzetto di bossolo d’ebano.

— Una fitta di ciuchi, — andava ripetendo — che si contentano di metter la seta sulle stecche! I manichi li comprano belli e fatti, all’ingrosso... E chi li vuole li paghi! ma l’arte è spacciata.

A poco a poco Dionisia si rimise in calma. Voleva un gran bene ai bambini, quel povero uomo, e permetteva a Beppino di venir giú, a fare il chiasso in bottega. Quando il bambino camminava carponi, non ci si entrava piú: lei nel suo cantuccio a fare i rammendi, lui davanti la vetrina a intagliare qualche cosa col temperino. Ogni giorno, le stesse occupazioni, gli stessi discorsi: mentre lavorava, il Bourras andava sempre a cascare nel Paradiso delle signore, e tutte le volte rifaceva la storia del suo terribile duello. Stava in quella casa dal 1845, e aveva un contratto per trent’anni per un fitto di milleottocento franchi l’anno: con le quattro camere ammobiliate ne ripigliava un migliaio, cosí non pagava per la bottega che ottocento franchi soltanto. Senza spese, a quel modo, poteva tener fermo dell’altro. A sentir lui, l’avrebbe spuntata di sicuro: il mostro gli doveva cadere ai piedi.

Da un momento all’altro s’interrompeva:

— Delle teste di cane come queste non ne hanno mica, loro!

E strizzava gli occhi dietro le lenti per giudicare meglio della testa che intagliava, una testa che mostrava i denti aguzzi, quasi ringhiasse davvero.


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