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il paradiso delle signore

Paradiso. Non c’era che un muro tra la sua cameretta e la sua antica sezione: subito, appena levata, ricominciava quelle giornate, sentendo la folla che saliva e il frastuono sempre crescente della vendita. Qualsiasi rumore scoteva la vecchia casaccia, che s’appoggiava al colosso e batteva, quasi, in quell’enorme polso. Inoltre non le era possibile schivare certi incontri. S’era trovata due volte faccia a faccia con Paolina che le aveva offerto di adoprarsi per lei, tutta addolorata a sapere che stava tanto male: aveva perfino dovuto dire una bugia per evitare di ricevere l’amica o d’andare a vederla una domenica dal Baugé. Ma piú difficile era per lei difendersi dall’affetto disperato del Deloche, che la spiava, non ignorava nemmeno uno dei suoi pensieri, l’aspettava sotto gli usci: un giorno voleva ad ogni costo prestarle trenta franchi; i risparmi d’un buon fratello, diceva lui, facendosi rosso come un papavero. Questi incontri la forzavano continuamente a rimpiangere il magazzino, e la tenevano al corrente di ciò che vi si faceva, come se non ne fosse mai uscita.

Non saliva mai nessuno da lei. Un bel giorno fu tutta meravigliata sentendo picchiare. Era il Colomban: non lo pregò nemmeno di mettersi a sedere. Da principio il giovane non sapeva che dire: le domandò come stava, parlò del Vecchio Elbeuf. Chi sa che lo zio Baudu non l’avesse mandato per rimediare al suo rigore? Perché continuava a negare perfino il saluto alla nipote, sebbene dovesse sapere in che miseria si ritrovava. Ma quando Dionisia domandò al commesso se era lo zio che lo mandava, egli parve anche piú imbrogliato: no, non lo mandava il padrone; e alla fine nominò Clara. Non voleva che


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