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sprezzo gli sbatté l’uscio. Ma quando fu in camera sua, si mise a sedere, e le mani le tremavano. Il bambino dormiva. Che gli avrebbe risposto lei, se si fosse svegliato e le avesse chiesto il pane? Eppure bastava che lei dicesse di sí, e la sua miseria sarebbe finita, avrebbe avuto quattrini, vestiti, una bella camera. Era una cosa da nulla; si diceva che tutte finissero cosí, perché a Parigi una donna non poteva vivere col suo solo lavoro. Ma l’animo le si ribellava, non mica indignandosi verso le altre, ma repugnando di sua natura dalle cose disonorevoli e stagionevoli. La vita, per lei, era ragionevolezza, giudizio, coraggio.

Molte volte Dionisia si scrutò cosí da se stessa. Le tornava in mente una vecchia canzone, la sposa del marinaio, che tra i pericoli dell’a spettare conserva l’amor suo. A Valognes soleva canticchiarne l’appassionato ritornello, mentre guardava nella strada deserta. Aveva forse anche lei un affetto che la faceva cosí costante?

Pensava ancora all’Hutin, scontenta di sé: lo vedeva passare, mattina e sera, sotto la sua finestra. Da che aveva ottenuto il posto tanto desiderato, camminava solo solo tra il rispetto dei commessi. Non alzava mai gli occhi; e a lei pareva patire della vanità di lui tenendogli dietro con lo sguardo senza timore d’essere scoperta.

Ma non appena vedeva il Mouret, che passava parimente tutti i giorni, era presa da un tremito e si nascondeva col petto ansante. Perché fargli sapere dov’ella stava? E poi se ne vergognava; e, per quanto non si dovessero vedere mai piú, soffriva, immaginando ciò che egli potesse pensare di lei.

Dionisia, del resto, viveva troppo vicina al


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