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il paradiso delle signore


Al secondo piano c’era un po’ piú di luce, che rischiarava pallidamente la povertà della casa. Un garzone di fornaio stava nella prima camera; l’altra, in fondo, era vuota. Quando il Bourras ebbe aperto, dové restare sul pianerottolo perché Dionisia potesse visitarla con comodo. Il letto accanto all’uscio lasciava per l’appunto il posto perché uno potesse passarci: di faccia un cassettoncino di noce, una tavola di abete annerito, due seggiole. Gl’inquilini che si volevano cucinare qualche cosa dovevano inginocchiarsi davanti al caminetto dove era un fornello di coccio.

— Si sa! — disse il vecchio — la stanza non è di lusso, ma la finestra è allegra; si vede la gente nella strada.

E mentre Dionisia guardava, stupefatta, l’angolo del soffitto, dove una inquilina avventizia aveva scritto con la fiamma di una candela il suo nome, Ernestina, il Bourras soggiunse placidamente:

— Se si stesse ad accomodare, ci si rimetterebbe un tanto... Insomma, se la volete, ecco qui: vi do tutto quello che ho!

— Ci starò benissimo — rispose la giovinetta.

Pagò un mese anticipato, chiese la biancheria, un paio di lenzuola, due asciugamani, e si rifece il letto senza aspettare altro, tutta contenta e con un gran peso di meno sullo stomaco, dacché almanco sapeva dove avrebbe passata la notte. Un’ora dopo, aveva già mandato un facchino a prendere la valigia e aveva messo tutto in ordine.

Da principio, furon due mesi di terribile miseria. Non potendo pagar piú la pensione di Bep-


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