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il paradiso delle signore

E dire che un’ora prima non le mancava un letto dove riposare!

Allora, con gli occhi alzati alle case, si mise a guardar le finestre.

Gli «appigionasi» non mancavano: ma lei li vedeva in confuso, ripresa ogni poco dalla commozione che l’agitava tutta. Com’era possibile ch’ella si trovasse cosí da un momento all’altro, sola, sperduta in quella gran città che non conosceva, senza amici, senza lavoro? Eppure bisognava mangiare e dormire. Di strada in strada, per Via dei Mulini, per Via Sant’Anna, s’aggirava intorno, tornando sempre al solo luogo che conoscesse bene. A un tratto restò meravigliata; era di nuovo davanti al Paradiso delle signore: e per liberarsi da quella vista si gettò in Via della Michodière.

Ebbe fortuna: lo zio Baudu era lí sull’uscio; il Vecchio Elbeuf pareva morto dietro le sue vetrine nere. Non avrebbe mai avuto il cuore di andar da lui, dacché fingeva di non riconoscerla piú né avrebbe voluto cascargli sulle braccia per colpa d’una disgrazia che egli aveva preveduta. Ma dall’altra parte della strada un cartello giallo la fermò: «Camera ammobiliata da appigionare ». Fu il primo cartello che non le fece paura, tanto la casa era di povero aspetto. Poi la riconobbe, con i suoi due piani bassi, la facciata color ruggine, soffocata tra il Paradiso e l’antico albergo Duvillard. Sulla soglia della bottega degli ombrelli, il vecchio Bourras, coi capelli e la barba da profeta, gli occhiali sul naso, esaminava l’avorio d’una mazza. Aveva preso in affitto tutta la casa, e, per diminuirsi la spesa della pigione, subaffittava bell’e ammobiliati due piani.


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