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il paradiso delle signore


— Su quel che ho di piú sacro, questa volta poi è proprio vero... Io la tenevo cosí, e lei mi abbracciava...

Lo dové far chetare ancora, e, non potendone piú, perseguitata a quel modo da tutti, proruppe:

— Non voglio saperne nulla, la tua cattiva condotta tientela per te. Son cose troppo brutte, capisci?... E tu non la smetti mai di tormentarmi coi tuoi cinque franchi!... Già, sto le nottate intere a lavorare... e tu rubi, rubi, intendi?, il pane al tuo fratellino.

Gianni restava a bocca aperta, fattosi pallido. Ma come? eran cose troppo brutte? Non ci capiva piú nulla: aveva sempre trattata la sorella come un buon compagno, e gli pareva naturale sfogarsi con lei. Ma ciò che piú lo meravigliava, era che lei lavorasse la notte. Il pensiero che egli la struggeva, e che mangiava il pane di Beppino, lo commosse sí forte, che si mise a piangere.

— Hai ragione! hai ragione! sono un infame! Ma non sono cose brutte, no! Anzi son belle, son tanto belle, che non si può fare a meno di ricominciare... Lei, vedi, ha vent’anni sonati, e credeva di poter scherzare, perché io ne ho soltanto diciassette... Dio mio! che male mi voglio ora da me! mi darei degli schiaffi. — Le aveva prese le mani, e le baciava bagnandole di lacrime. Dammi i quindici franchi, e ti giuro che sarà l’ultima volta... Ma no! no! non mi dar nulla; è meglio che io muoia. Se il marito m’ammazza, almeno non avrai piú questo pensiero.

Vedendo piangere anche lei, ebbe un rimorso:

— E poi, chi lo sa? Può anche essere che non ammazzi nessuno... Ci accomoderemo in qualche


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