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zola


— Zitte! — disse Paolina — ecco quella bestiaccia!

Era il Jouve. Girava volentieri attorno alle ragazze quando finivano di mangiare; non c’era nulla che dire, perché toccava a lui sorvegliare le due stanze. Con gli occhi sorridenti entrava e faceva il giro delle tavole; qualche volta si metteva perfino a discorrere, domandando se avevan mangiato bene. Ma tutte scappavano via subito, per non esser seccate.

Sebbene non fosse ancora sonata l’ora, Clara fu la prima ad andarsene, e le altre le tennero dietro. In breve non restarono che Paolina e Dionisia. Paolina, finito il suo caffè, dava fondo ai cioccolatini.

— To’! disse a un tratto, alzandosi voglio mandare qualcuno a comprare delle arance... Venite anche voi?

— Fra poco — rispose Dionisia che rosicchiava una crosta di pane, tanto per restare l’ultima e poter parlare al Robineau nel tornar su.

Ma quando si trovò sola col Jouve, capí d’averla sbagliata, e, dispiacente, si alzò. Mentre ella si volgeva verso l’uscio, costui le sbarrò la strada:

— Signorina...

Diritto in faccia a lei, aveva presa un’aria paterna. I mustacchi grigi, i capelli corti e irti, gli davan l’aspetto d’un onesto soldato; e sporgeva il petto col nastrino rosso.

— Che desidera? chiese lei, in tono rimesso.

— Anche stamani vi ho sorpresa lassú, che discorrevate dietro i tappeti. Voi sapete che è proibito, e se facessi il rapporto... Ma dunque vi vuol proprio bene la vostra Paolina?


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