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il paradiso delle signore


— Il Robineau è tornato, signorina — disse l’Hutin con cortesia canzonatrice.

— È ancora a tavola — aggiunse l’altro. — Però, se avete fretta, potete entrare.

Dionisia seguitava a scendere senza né rispondere né voltarsi.

Ma quando passò davanti alla stanza da pranzo dei capi e degli aiuti, non poté fare a meno di gettarvi un’occhiata. Il Robineau c’era davvero: avrebbe cercato di parlargli dopo; e si affrettò per l’andito verso la sua tavola, ch’era in fondo.

Le donne mangiavano da loro in due stanze riservate. Dionisia entrò nella prima, ch’era anche essa un’antica cantina adattata a refettorio, ma con un po’ piú di decenza. Sulla tavola ovale, in mezzo, le quindici posate non stavano fitte fitte, e il vino era in bocce; ai due capi, due vassoi: uno di carne con la salsa piccante, l’altro di razza. Un garzone col grembiale bianco serviva le signore, che non erano obbligate a pigliarsi da sé le porzioni allo sportello. La Direzione aveva voluto, cosí, usare speciale riguardo al sesso.

— Avete dunque fatto tutto il giro? domandò Paolina, ch’era di già a sedere e si tagliava il pane.

— Sí, — rispose Dionisia, arrossendo — accompagnavo una cliente.

Era una bugia: Clara diè nel gomito a una ragazza accanto. Che diavolo aveva la «sciattona »? Quel giorno ne faceva di tutte. Aveva cominciato col ricevere lettere dell’amante, poi s’era messa a correre su e giú pel magazzino come una pazza, con la scusa del laboratorio, dove non poneva mai piede. Chi sa che pasticcio


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