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zola

compro qualche altra cosa!... Vittorio, dell’altra conserva.

Il garzone finiva di distribuirla. Poi portò il caffè: quelli che lo volevano gli davano subito i tre soldi. Qualcuno se n’era già andato a passeggiare pel corridoio, cercando un cantuccio per fumare in pace la sigaretta. Gli altri restavano sonnacchiosi davanti alla tavola piena di piatti sudici; facevano delle palline di pane tornando sempre agli stessi discorsi in quel puzzo di mangiato che non sentivano piú, e nel caldo da stufa che arrossiva le orecchie. I muri trasudavano: dalla volta ammuffita cadeva una lenta asfissia. Il Deloche, appoggiato al muro, inzeppato di pane, digeriva chetamente con gli occhi fissi all’apertura che dava sulla strada: tutti i giorni era quello il suo divertimento dopo colazione, guardare a quel modo i piedi di coloro che passavano lesti lesti lungo il muro, piedi piatti, scarponi, scarpe eleganti, stivaletti da donna; un viavai continuo di piedi viventi senza corpo né testa. I giorni di fango era un vero sudiciume.

— Ma come? di già?

Una campanella sonò in fondo all’andito; bisognava lasciare il posto alla terza tavola. I garzoni venivano con secchi d’acqua tiepida e grandi spugne, e lavavano l’incerato. Le stanze si votavano a poco a poco, e i commessi tornavano alle sezioni, salendo lentamente le scale. In cucina, il cuoco s’era rimesso al suo posto dietro allo sportello tra i recipienti della carne e della salsa, bell’e pronto a riempire un’altra volta i piatti col suo moto regolare da orologio. Mentre l’Hutin e il Favier venivano su piano piano, videro Dionisia che scendeva.


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