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zola

vier. — Ed io che ho fatta la sciocchezza di gliare la razza... è andata perfino a male.

Parlavano tutt’e due insieme, un po’ arrabbiandosi, un po’ ridendo. In un cantuccio della tavola, accanto al muro, il Deloche mangiava zitto zitto. Non ne poteva piú dalla fame, e non se la levava mai: e siccome guadagnava tanto poco che non poteva pagarsi qualche altra cosa, si tagliava certe fette di pane enormi, e ingoiava i piatti meno appetitosi, come se fossero ghiottonerie. Per questo era la beffa di tutti; gli gridavano:

— Favier, passa un po’ la tua razza al Deloche. A lui gli piace cosí!

— Dategli anche la vostra carne, Hutin. Il Deloche la vuole per rifarsi la bocca.

Il povero diavolo alzava le spalle e non rispondeva nemmeno; se moriva di fame, non era colpa sua. E poi gli altri avevano un bello sputar sulle vivande; finivano sempre anche loro col mangiarsele.

— Ma un lieve fischio li fece chetare. Era il segno che il Mouret e il Bourdoncle comparivano nell’andito. Da qualche giorno i lamenti degli impiegati eran divenuti tali, che la Direzione fingeva di voler giudicare da sé se il vitto fosse buono o no. Non davano al cuoco ogni giorno che un franco e mezzo a testa, e il cuoco doveva con quel franco e mezzo pensare a tutto: vitto, carbone, gas, servizio. Quando il cibo non era buono, i direttori pareva cascassero dalle nuvole.

Anche quella mattina tutte le sezioni avevano delegato un commesso, e il Mignot e il Liénard si erano impegnati a parlare a nome di tutti. Cosí in quel silenzio improvviso le orecchie si tesero per sentire le voci della stanza accanto, dove


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