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(4286-4287) pensieri 233

rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava  (4287) sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo (Firenze, 23 luglio 1827). Colla rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natio.


*    Veramente e perfettamente compassionevoli non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero piú atti che gli altri, quando sono nel fior dell’età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perché se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d’un altro mondo, perché essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v’ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia cosí pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventú, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto piú si sente, quanto uno è d’altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore dei giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventú (Firenze, 23 luglio 1827).