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si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia piú.

Ma se crediamo questo, perché lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è piú? - Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato di vivere, perché ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.


     In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è piú, io non lo vedrò piú. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai piú; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai piú: io non lo vedrò piú mai: o vero: questo è passato per sempre. 1

  1. Vedi la p. 4282.