non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l’occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo alcuno, i piaceri della tavola. L’opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell’incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel (4276) luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l’umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo. Non è molto umano il di-