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242 | pensieri | (3860-3861) |
subito, sono andati dal seicento in poi sempre crescendo sí in Italia che in Ispagna, ed oggi sono al lor colmo in ambo i paesi, benché le cagioni assegnatene forse non sieno maggiori oggi che nel principio, anzi forse al contrario (sebbene però la placidezza del dispotismo, propria dell’ultimo secolo, e quindi la blandizia di esso, n’é anzi la perfezione, la sommità e il massimo grado, che un grado minore). Questo è avvenuto perché niente in natura si fa per salto, e perché un vivente, colpito dalla morte, si raffredda a poco a poco, ed è piú caldo assai a pochi momenti dalla morte, che un pezzo dopo. Nel seicento, ed anche nel settecento, l’Italia già uccisa, palpitava e fumava ancora. Cosí discorrasi della Spagna. Or l’una e l’altra sono immobili e gelate, e nel pieno dominio della morte.
Egli è costante, ed io in molti luoghi l’ho sostenuto, (3861) che crescendo le cose, la lingua sempre si accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com’è avvenuto infatti dal seicento in qua agli spagnuoli ed a noi, le cui lingue, di ricchissime e potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano continuatamente scemando, restringendo e impoverendo, e sempre piú s’impoveriscono e perdono il loro esser proprio, e le ricchezze lor convenienti; cioè le proprie, perché le altrui ch’esse acquistano, molto incapaci d’altronde di compensare le loro perdite, non sono di un genere che si convenga alla natura loro. Veramente le dette lingue vanno morendo. Perché infatti la Spagna e l’Italia, dal seicento in qua, e negli ultimi tempi massimamente, non ebbero e non hanno più vita, non solo nazionale, ch’elle già non sono nazioni, ma neanche privata. Senz’attività, senza industria, senza spirito di letteratura, d’arti ec., senza spirito né uso di società, la vita degli spagnuoli e degl’italiani si riduce a una routine d’inazione, d’ozio,