fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventú, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benché grandi, e forse talora piú grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo né il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E cosí le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo (10 luglio 1823). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Cosí elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la (2937) miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benché a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poiché non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire né conoscere o sufficientemente immaginare né i limiti, né le ragioni, né le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benché né l’esistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza cosí nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’é la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esi-