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(3179-3180-3181) pensieri 229

sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità di quelle (vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente de’ selvaggi, e massime de’ piú  (3180) naturali, come i californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte piú poche e rare e men feroci che quelle de’ cittadini). È parimente indubitato che la civiltà rende l’uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d’esser danneggiato da quelle fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari, egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale, privo di forza, o con minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; e ch’ella rende propria dell’uomo civile la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura non è propria né dell’uomo né di veruno altro genere di cose, né dev’esserlo (vedi la p. 3084, segg). È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione piú, sí per se stessa, sí perch’ella cosí peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi considerate, si fa piú che certissimo e si tocca con mano, che i progressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo deterioramento  (3181) del suo fisico, deterioramento sempre crescente in proporzione d’essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano oggidí (e molti