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e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n’erano degni: talmente che anche i doni naturali, come la bellezza e la forza, si stimavano compagni  (3099) ed indizi de’ pregi dell’animo e de’ costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l’altre felicità della nascita cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti nell’Elisio, s’interessassero piú della terra che dell’Averno, e che gli Dei fossero piú solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocché il merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer buono e grande quello ch’é inutile? e se il merito era infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?

Era dunque la felicità principale ed essenzial cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria presso gli antichi, ancor  (3100) piú che presso i moderni; e massimamente appo gli antichissimi. Perocché insomma ella è cosa naturale il pregiar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragionevole ch’ella tanto piú sia pregiata quanto i costumi, le opinioni e la vita degli uomini sono piú vicini e conformi alla natura, quali erano in fatti nella piú remota antichità. Omero dunque, pigliando a esaltare un Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e della sua lode, e facendo materia del suo poema l’elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero conseguito l’intento di quella impresa di ch’egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pigliare un Eroe fortunato.