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114 | pensieri | (2981-2982-2983) |
abbondante di novità, cosí fervido, cosí veemente, cosí mosso ed affetto dalla natura e dagli oggetti che se gli presentano o ch’egli immagina, come nel principio. Massimamente nella Iliade. Nella quale anzi la ricchezza, varietà, bellezza, originalità e forza dell’invenzione tanto piú s’accrescono, quanto piú si avanza ed è maggiore nel fine che nel principio.
E veramente si può dire che Omero fu molto piú ricco del suo solo, che tutti gli altri poscia non furono del loro proprio e dell’altrui accumulato insieme. Né certo, secondo le addotte considerazioni, dee parer poco maraviglioso e notabile, benché materiale, il dire che i poemi epici d’Omero sono piú lunghi di (2982) tutti quelli che da essi in uno o altro modo derivarono (poiché anche il Paradiso perduto e la Messiade derivano pur di là), e che di essi in una o altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo che in tutta la loro estensione essi sono i medesimi, cioè sempre veri poemi, e sempre uguali a se stessi, il che non si può neppur sempre dire di tutti gli altri sopraddetti.
Par che l’immaginazione al tempo di Omero fosse come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai lavorati, i quali, sottoposti che sono all’industria umana, rendono ne’ primi anni due e tre volte piú, e producono messi molto piú rigogliose e vivide che non fanno negli anni susseguenti, malgrado di qualsivoglia studio, diligenza ed efficacia di coltura. O come quei cavalli indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che, abbandonati al corso, si trovano molto piú freschi e gagliardi de’ cavalli esercitati e addestrati, dopo aver fatto un doppio spazio. Tanto che, considerando la freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione di Omero nella fine della Iliade, par ch’ei non lasci di poetare (2983) e non chiuda il poema, se non perch’ei vuol cosí, e per esser giunto alla meta ch’ei s’era prefisso, o perché ogni opera umana dee pure