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50 | pensieri | (537-538-539) |
ducem, c. 5): ma non ottiene neanche il suo fine, ch’é la felicità dell’individuo (538) in qualunque modo ottenuta. Anzi, al contrario, l’impedisce e la toglie di natura sua ed è contraddittoria e incompatibile colla felicità dell’individuo nello stato sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtú dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere e nella società, ma in particolare e in ciascuno. Chi è o fu piú felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, inazione, amore del nostro bene e non curanza di quello degli altri o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo o noi col nostro egoismo? (21 gennaio 1821).
* È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i piú difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i piú incerti, i piú barcollanti e temporeggianti, i piú tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione; i piú inclinati e soliti a lasciar le cose (539) come stanno; i piú tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere (21 gennaio 1821).
* Ma non perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito determinarsi a non credere (come anche a non fare). Anzi perciò appunto è indizio di piccolo spirito. Il non credere è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti e profondi ed esperti sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile