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450 pensieri (1158-1159-1160)

posto, nella poesia greca non è mangiata né si perde o àltera in verun modo e si conta per sillaba, come fosse seguíta da consonante, fuorché se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Cosí dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina e intatti nella greca.

Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de’ trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non  (1159) solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo a poco a poco, quanto piú s’é allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi, non solo dal massimo numero degli scrittori, cioè da quelli di poca vaglia, ma da piú eleganti è per lo piú sfuggita come vizio e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza e di grazia. Massimamente però gli scrittori piú triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de’ due ultimi secoli, par ch’abbiano una somma paura che due o piú vocali s’incontrino e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.


    E cosí stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell’indole sua e del ripulimento di esse lingue. E accadde, io penso, anche alla lingua greca. Giacché, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci piú recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel séguito, si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole ναιχὶ καλὸς si fa che l’eco risponda ὔλλὸς ἒχει (epig. 30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell’epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni per naichi ed echei. E come io non  (1160) dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro dit-