tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perché, essendo, com’è oggi relativamente al francese, molto piú facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano cosí periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidí: e pochi o nessuno la possedé cosí a fondo come Cicerone), senza troppo curare di accertarsi s’ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, (751) davan sacco alla lingua greca che l’aveva tutto alla mano. Parte, perché non la sola necessità o la difficoltà dell’uso del latino in quei casi o finalmente l’ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo, oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda. Orazio già avea dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, insomma tutto l’opposto del carattere romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra’ cortigiani, quanto Federigo II tra i re. Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov’egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli però, come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll’esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s’egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perché i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch’io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco