164 |
pensieri |
(748-749-750) |
gidí, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benché gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1°, intese e chiare, 2°, inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso e di non riuscire affettato, perché la lingua greca era divulgatissima e familiare fra’ suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime e usitatissime, anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie filosofiche e simili. E di piú erano necessarie. Cosí dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle (749) cose e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura, tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla súbito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata; e cosí la facoltà generativa della lingua latina rimase o estinta o indebolita e si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato (750) da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella