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nando di rimunerarli, scrivendo loro di Lecce addì 21 dicembre del 63, nel ringraziarli dei sagrifizii per lui durati: De le fame vexatione perdenze morte e tribulationi, le quali non solamente patienter ma voluntariamente havete incorse et voluto sostenere, cognoscemo et affirmamo esser nato el relevamento del stato nostro et obtentione de questo reame; de le quale cose, non diminutione de la vostra libertà, ma augmento de dignissimi varii premii sperare dovete1. La città, sollucherata dalle molte speranze fattele concepire dal rescritto del monarca, gli presentò l’anno appresso per suoi ambasciatori ampii capitoli di concessioni, addì 14 novembre 1464, accordati e firmati in Aversa, fra i quali leggiamo il seguente: Più, supplica la prefata cita che vostra majesta se digne in honore et dignita de ipsa cita concedereli che possa bactere et fare bactere la zecca et fare monete de carlini, celle et denarelli, et farli de cio a la cita predicta autentico privilegio. Rescrisse il re: Placet regie majestati de concessione sicle ad beneplacitum, verum in ca non posse cudi alia moneta quam que cuditur in sicla Neapolis2. Il diligentissimo raccoglitore ed illustratore dei diplomi chietini, Gennaro Ravizza, annotò a questo luogo: «Ignoro se ebbe mai esecuzione il permesso di Ferdinando I di battersi moneta nella zecca di Chieti, ed in qual modo. Certamente non ne ho veduta alcuna con la impresa della città e con la croce, come quella coniata sotto di Carlo VIII».
E valga il vero, non ha moneta fra quelle di Ferdinando che, battuta sul piede napoletano, porti verun contrassegno della zecca di Chieti; e perciò si pare che il concesso privilegio non fosse mai posto in atto. Pure, avendosi conii chietini di epoca assai vicina a questa di cui ci occupiamo, analoghi agli atriani di Giosia Acquaviva e di Matteo di Capua, li reputo essi pure di quella torbida età della congiura dei baroni, quando Chieti era residenza del vicerè, vale a dire tra il 1459 e il 63,