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parvero allora sull’uscio le ombre di alcuni marinai. Lo sciagurato venne raccolto, trasportato nella sua cabina. E il secondo di bordo mi spiegò:
— Patisce di questi attacchi.... Forse se la caverà. Il medico, dopo l’ultimo colpo, gli ordinò di non bere. Ma sí...! Appena vede una bottiglia di gin, diventa matto!
Il giorno dopo stava peggio. Non si alzò più dal suo lettuccio. Non parlava, non si muoveva. Ho sempre nella memoria la visione di quel suo gran corpo affondato nella cuccetta, come in una bara, dei suoi occhi vitrei fissi in qualche cosa che forse egli solo vedeva.
Potei, in tal modo, sbarcare senza altri guai a Nuova York, portando meco il mio prezioso bagaglio.
Fortunatamente mi aspettavano al porto i mei amici, il dottor Piccardi e James Hebert, i quali avevano provveduto a far venire presso la banchina una grossa macchina che ci avrebbe trasportati a San Francisco.
Otto giorni di corsa: arrivammo nella grande città californiana il 31 luglio, di sera, e subito andammo verso il campo dove erano state impiantate le officine per la costruzione del razzo interplanetario.