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tato a schiudersi. Il «giardino» di Max, immerso nell’ombra per le prime cinquanta ore del giorno lunare, si era accuratamente coperto di brina. Poi, quando un raggio di sole scivolò nel fondo del cratere e si insinuò fino a sfiorare con la sua carezza il lieve monticello di terra, quel velo biancastro disparve. E, come ho scritto sopra, tre foglioline verdi avevan fatto capolino su quella superficie oscura e morbida. Max aveva seguito il maraviglioso fenomeno di vita con un’ansia tenera e puerile che noi ci eravamo ben guardati di turbare con una sciocca curiosità. Ma, appena fummo certi che il nostro amico era riuscito perfettamente nel suo còmpito, buttammo all’aria il riserbo e lanciammo grida di allegrezza e di commozione. In fine dei conti, Max aveva risolto un formidabile problema: quello della possibilità di sviluppo della vita su qualunque terra dell’infinito. Quei minuscoli semi terrestri, trasportati in un po’ di terra lunare, per la sola virtú generatrice del sole, avevan germogliato perfettamente. Era possibile intravedere, anche con una mediocre fantasia, gli sviluppi di questo primo risultato favorevole: per esempio, la coltivazione di certe parti della Luna, — i fondi deí cratèri, le vaste erosioni dei crepacci — che avrebbero potuto precedere una vera e propria