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da Cristo. Si ritenne per certo, a lungo, ch’egli si esprimesse in aràmico. Anche Renan lo credeva. Ma ora sappiano che gli abitanti della Galilea, come gli Irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui e il greco era il linguaggio ordinario che serviva per le relazioni quotidiane da un capo all’altro della Palestina e, veramente, da un punto all’altro di tutto il mondo orientale. Ero spiacente di non poter conoscere le parole di Cristo, se non a traverso la traduzione di una traduzione. Sì, è per me una delizia pensare che, almeno per la semplice conversazione, Càrmide avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate parlare con lui e Platone comprenderlo; ch’egli pronunciò esattamente: ἐγώ είμι ὄ ποιμἠν ὀ ϰαλὅς (io sono il buon pastore); che quando pensava ai gigli del campo, i quali non lavorano e non filano, egli s’espresse precisamente così: Κατα μὰϑετει τὰ ϰρίνα τοῦ πῶς αύξάνεί αγρού οῦ ϰοπιᾶ ούδὲ νηϑε e che la sua ultima parola, quando gridò: «Tutto è finito, la mia vita è terminata, ha toccato il vertice della sua perfezione», fu proprio quella che