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propria espressione. Con delle parole o con dei colori, con la musica o col marmo, dietro la maschera dei personaggi d’Eschilo o con le fistule traforate d’un pastore siciliano, dovettero rivelarsi l’uomo e la sua intimità.

Per l’artista, l’espressione è il solo aspetto secondo il quale egli possa concepire la vita. Per lui ciò che è muto è morto. Ma per Cristo, invece, non era così. Con una immaginazione meravigliosa e vasta, che talvolta riempie di spavento, egli assunse per regno il mondo intero dell’immobilità, il mondo senza voce del dolore e ne divenne l’interprete. Scelse come suoi fratelli coloro che sono muti sotto il servaggio e «il silenzio dei quali non è inteso altro che da Dio». Egli volle divenire l’occhio dei ciechi, l’orecchio dei sordi e un grido sulle labbra di coloro che avevano la lingua recisa. Il suo desiderio era d’essere una tromba per le miriadi d’uomini che non avevano mai potuto esprimersi, una tromba con la quale egli lancerebbe il loro anelito verso il cielo. Con la natura artistica d’un essere pel quale sofferenza e dolore