ponderoso tonfo abbattuto, rovinò al piano. Allora sorse dalle ruine l’ombra di Alfonso in apparenza di guerriero immensamente grosso e grande: in un tratto, l’elmo incantato che era nel cortile andò a posarsegli sul capo; la smisurata spada lampeggio nella sua destra, ed egli così parlò. “Io sono il vero erede e signore di Otranto: un alto destino aveami confinato, e quasi sepolto in queste mura, a crescer quivi in immensa mole sin tanto che vedessi eseguita la mia vendetta. Il destino e la vendetta son compiuti: nè mi è permesso di quì più abitare, nè l’ampiezza mia più ci cape, nè poteva uscire, quasi vuota ombra non fossi, senza rompere e conquassare il castello, divenuto ormai per tanti delitti non degna sede per la mia progenie futura. Sorga questa reggia più magnifica, e regnivi in pace il mio legittimo successore; ravvisatelo in Teodoro: viva egli felice, ed onori la mia memoria.” Disse; ed allo scoppiar di un tuono, essendo ascesa maestosamente in aria, si vide aprirsi