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Cinque anni erano trascorsi dal giorno della crocefissione, ed Ester, la moglie di Ben Hur, sedeva nella sua stanza nella bellissima villa di Miseno. Era un caldo pomeriggio di primavera e il sole d’Italia splendeva fervido sopra i mirti e le rose del giardino. Tutto quanto l’appartamento era Romano, solo l’abbigliamento di Ester era di foggia Ebraica, Tirzah e due fanciulli, che giocavano sopra una pelle di leone sul pavimento, le tenevano compagnia, e non si aveva che ad osservare con quale cura essa vegliava sopra i piccini, per conoscere che quelli erano suoi figli.
Il tempo era stato generoso con essa, e gli anni non avevano diminuita la sua bellezza. Nel diventare padrona della villa, aveva attuato uno dei suoi sogni più cari.
Ad interrompere questa semplice scena domestica, un servitore apparve sull’uscio e disse:
— «Una donna nell’atrio desidera di parlare con la padrona.» —
— «Lasciala entrare. La riceverò qui.» —
Dopo pochi istanti comparve la straniera. Nel vederla, l’Ebrea si alzò e stava per parlare; poi esitò, cambiò colore, e finalmente disse, tirandosi indietro: — «Mi pare di riconoscervi, buona donna — siete....» —
— «Iras, la figlia di Balthasar.» —
Ester celò la sua sorpresa, ed ordinò al domestico di portare una sedia.
— «No,» — disse Iras, freddamente — «parto subito.» —
Le due donne si guardarono in viso. Sappiamo ciò che fosse Ester — una bellissima donna, una madre felice, una sposa contenta. D’altra parte era chiaro che la sorte non aveva trattato con egual favore la sua antica rivale. La figura alta e slanciata riteneva ancora parte della sua grazia; ma una vita cattiva aveva impresso le sue traccie su tutta la persona. Il viso s’era fatto volgare; i grandi occhi erano rossi, e gonfie le palpebre; le guancie erano pallide ed infossate, le labbra dure e ciniche, e la generale trascuratezza la invecchiarono anzi tempo. La veste era laida e bruttata dal fango, della via. Iras ruppe per prima il silenzio penoso.
— «Sono questi i tuoi bimbi?» —
Ester li guardò e sorrise.