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CAPITOLO XI.


All’ora in cui due terzi della popolazione d’Antiochia riposava dalle fatiche del giorno, godendosi, sui terrazzi delle case, l’aria rinfrescata dalla brezza serale, Simonide, adagiato nel seggiolone ormai diventatogli indispensabile, stava contemplando dal proprio terrazzo il fiume, ed i navigli che vi erano ancorati. La muraglia che ergevasi dietro di lui proiettava la sua ombra sull’acqua fino a raggiungere la sponda opposta, ed al disopra continuava il solito rumore dell’andirivieni sul ponte. Ester, presso al padre, gli teneva dinanzi un piatto contenente la sua cena frugale, composta di focaccie leggiere come ostie, un po’ di miele ed una tazza di latte nella quale Simonide immergeva le focaccie dopo averle spalmate di miele.

— «Malluch ritarda questa sera» — mormorò egli scoprendo così il pensiero che lo preoccupava.

— «Credi tu ch’egli verrà?» — chiese Ester.

— «A meno ch’egli non abbia dovuto prendere la via del mare o del deserto, verrà.» —

Simonide parlava tranquillamente da uomo sicuro del fatto suo.

— «Potrebbe invece scrivere.» — suggerì timidamente la ragazza.

— «No, Ester. Egli mi avrebbe già avvertito con lettera se si fosse accorto di non poter ritornare e poichè non m’ha avvertito sono certo che verrà.

— «Speriamolo» — sospirò la giovine.

V’era un non so che nel tono col quale ella si lasciò sfugire questa parola, che colpì il vecchio. Il più piccolo uccellino non può posarsi sopra un ramoscello senza comunicare una vibrazione, per quanto leggiera, a tutte le fibre dell’albero, e l’organismo umano non è meno sensibile qualche volta alle più insignificanti parole.

— «Tu desideri ch’egli ritorni, Ester?» —

— «Sì, rispose ella» — guardandolo negli occhi.

— «Perchè? potresti dirmelo?» — persistette il padre.

— «Perchè...» — essa sostò, poi riprese: — «perchè il giovane è...» — e qui di nuovo si fermò.

— «Il nostro padrone, tu vuoi dire.» —