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— «E’ Ebreo ed è un ragazzo!» —
Sotto lo sguardo scrutatore fissato sopra di lui, gli occhi dello schiavo si allargarono e il sangue gli imporporò le gote. Il remo rimase inerte nelle sue mani, ma tosto il martello dell’hortator, cadendo rumorosamente, lo richiamò al dovere. Il vogatore trasalì, e, come se il rimprovero fosse stato personalmente indirizzato a lui, immerse il remo. Quando guardò nuovamente il tribuno, fu stupito di incontrare un sorriso.
Frattanto la galera entrava nello stretto di Messina, e, passando davanti alla città di quel nome, volse la prora verso oriente, finchè la nuvola sopra l’Etna divenne come una macchia sull’orizzonte.
Spesso mentre Arrio dalla piattaforma scendeva alla cabina, si voltava per studiare il rematore, dicendo fra sè:
— «E’ un giovane animoso. Un Ebreo non è un barbaro. Voglio conoscerlo meglio.» —
CAPITOLO III.
Da quattro giorni durava il viaggio, e l’Astraea — così si chiamava la galera — solcava rapidamente le onde del mar Ionio: il cielo era sereno, ed il vento, soffiando costante dall’occidente attestava il favore degli Dei.
Arrio sperava di raggiungere la flotta prima che questa toccasse la baia ad oriente dell’isola di Citera, designata per l’incontro, e, impaziente della lunga attesa, passava tutta la giornata sopra coperta, notando con diligenza ogni particolare della sua nave. Nella cabina, seduto sopra il suo seggio, i suoi pensieri correvano sovente al rematore numero sessanta.
— «Conosci tu quell’uomo che ha abbandonato or ora quel banco?» — chiese finalmente all’hortator.
Gli schiavi s’erano appunto dato il cambio.
— «Numero sessanta?» — domandò il capo.
— «Sì» —
Il capo guardò attentamente il rematore che passava.
— «Come tu sai, la nave è uscita dal cantiere un mese a, e gli uomini mi sono nuovi come il bastimento.» —
— «E’ un ebreo» — osservò Arrio, pensoso.
— «Il nobile Arrio ha l’occhio penetrante.» —